Andrea, vieni che è pronto.

Nasce a Montesacro, uno dei 35 quartieri di Roma, nel 1986 in concomitanza con Howard il Papero, ma tra di loro non ci sono rapporti di parentela. Manifesta da subito una spiccata attrazione per gli stati alterati di coscienza.

Baby K è la più grande artista italiana vivente. Ecco perché.

La Storia accade tra l’indifferenza generale. Nessuno si accorge realmente di vivere fatti o persone che un giorno nel futuro saranno ricordati come capitoli imprescindibili di questo grande libro chiamato umanità. È il paradosso dell’eterno presente. Una bulimica filter bubble ingurgita e sopprime qualsiasi tentativo da parte dell’uomo di ergersi ad osservatore della realtà che non partecipa al contesto. Il passato lo si ricorda, il futuro lo si immagina. Ma ciò che rilevano – e rivelano – i nostri sensi è sempre e solo l’oggigiorno.

In questa trappola del tempo, Baby K e la sua musica sono l’esempio più appropriato di come la grandezza a volte ci passi accanto senza provocare in noi il minimo gesto di riverenza.
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Nata a Singapore col nome di Claudia Judith Nahum, Baby K porta dentro di sé l’attitudine tutta singaporiana di concentrare tanto senso in poco spazio. I suoi testi sono vetrate a muro che danno su un mondo di uomini e donne fragili, così fragili da vedersi costretti a vivere la vita un po’ come viene, perché in fondo basta un niente e si cade in pezzi. Ma è proprio nella franchezza della sua narrativa che la infans perpetua del Quadraro sbaraglia qualsiasi relativismo, andando dritta al punto: questa vita sarà anche un bel casino, ma ci sono Precog che sanno andare oltre per poi tornare indietro con in mano una piccola scatola di cartone. Contenuto? La verità.

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Per non essere tacciati di sterile babykeismo, ci siamo spinti laddove anche i più illustri critici della parola hanno desistito. Ovvero nell’analisi escatologica di “Come no”, singolo estratto da “Icona”, ultima fatica dell’artista che ha fatto del suo nome un grido di battaglia.

Il brano, una rara forma idiomatica riconducibile al paleolessico della Sabina, lascia subito intendere ambizioni ermetiche neanche troppo velate. “Come no”, oltre a dire x per intendere y, è uno statement destinato a diventare relevant in primis per la sua originalità.

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Constatata la carica rivoluzionaria del progetto artistico, possiamo addentrarci nel labirinto testuale per tentare di decodificare quello che, a tutti gli effetti, sarà percepito dai posteri come la stele di Rosetta dell’antropocene tardocapitalista.

Abbiamo detto stop
ma tu guarda un po’
parli del diavolo eccolo al telefono.

Già dai primi versi non possiamo esimerci dal collocare il brano nel contesto socio-culturale in cui nasce: Baby K è sovranista, chiaro, ma lo è perché vittima cosciente dello spirito del suo tempo, un tempo che fino a pochi anni fa parlava ancora di programmi a sostegno di paesi del Centro Africa. E questo lo si nota dall’atterraggio del brano e dalla sua immediata conversione verso l’esatto opposto: da “abbiamo detto stop”, una prima persona plurale che include una decisione condivisa di un uomo e una donna (ottica liberal, quindi le pari opportunità, l’emancipazione femminile, il Sessantotto, la quota rosa, la legge 194 sull’aborto), si passa ben presto a “parli del diavolo eccolo al telefono”, nuovamente un modo di dire, stavolta riconducibile al tardo Medioevo accostato alla cit. preferita di mia nonna (ottica sovranista, il ritorno al patriarcato, la superstizione come bussola morale, la tecnica come mezzo e non come fine e, ovviamente, la teoria gender). Baby K è inserita sì nella rivalsa destrorsa di questi anni, ma proviene dal politically correct della Terza Via, quella del tridente Blair, Clinton e D’Alema. Nella foto qui sotto i 90s boys programmano la fine del welfare state. 8026774260_c13ae44c3dMa andiamo avanti.

Stai chiamando a raffica
troppo fatta già per risponderti così
m’hai lasciata un mese fa (non so più che dirti)

Quando l’immagine di una Baby K tradizionalista sta prendendo piede nella nostra mente, ecco che qualcosa rompe tosto questa proiezione. Mentre il rappresentante della società patriarcale fa pressione per riavere ciò che gli spetta di diritto, Baby K si appella a una delle ultime manifestazioni degli ormai flebili istinti anti-autoritari del target 15 – 35: il consumo di droga. Baby K è fatta strafatta. Siamo dunque di nuovo entrati in un’ottica liberal? Neanche per il cazzo. La ragione recondita di questa sua ribellione di costume non è una sana presa di coscienza alla #metoo, bensì la separazione, la fine dell’amore, lo Sturm und Drang, perché in fondo “m’hai lasciata un mese fa”. L’inciso “non so più che dirti” sembra invece rievocare la reazione di Gorbaciov davanti alla tomba di Lenin alla luce dell’imminente dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Non eri tu che mi hai lasciato come un d.m
Mi hai fatto fare una figura di m
Ho pianto fino a far cadere le stelle
Corri tu qui da me se déjà vu

Baby K comincia a togliersi un paio di sassolini dalle sue zeppe Fornarina, e lo fa chiamando in causa la modalità della separazione, un dettaglio che non sembra andarle giù. Si scopre che l’homo ridiculus, per non incappare in fastidiose ritorsioni giudiziarie, ha lasciato Baby K con un DM. Ma di cosa parliamo quando parliamo di DM? Quasi tutti gli esperti che abbiamo contattato sono d’accordo su un punto: Baby K è stata lasciata con un Decreto Ministeriale.
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A questa offesa è seguita un’ulteriore onta, ovvero lo scherno (“la figura di m”) dei compagni di partito dell’artista. È qui che Baby K mostra il suo lato più umano: la vergogna è troppa e le lacrime cominciano a scorrere copiose sul suo viso. L’universo intero non può rimanere indifferente. Pioggia di comete.

Come no come no come no
Stasera dici che resterai sobrio
Come no come no come no
E poi finisci sempre a fare il solito
Come no come no come no
Perché devi fare il fenomeno
Se quando arriva il mattino cerchi me sul cuscino
Tra noi era finita come no  

Dopo neanche un minuto siamo già giunti all’acme. Il mantra è presto servito: come no (x3) è un martello pneumatico a cui bastano tre colpi per abbattere il muro di illusioni che ci siamo fatti riguardo la giornata tipo di una donna nel 2018. “Stasera dici che resterai sobrio” ci intristisce a dismisura. Siamo in un salotto di una casa al primo piano (falso primo piano, perché se ti affacci sei a livello strada) altezza Malagrotta. Un’atmosfera spettrale avvolge Baby K la cui parannanza è sudicia di Pomì. Ha cucinato tutto il pomeriggio ma lui niente, si è fermato al dopolavoro con i colleghi. Rumore di chiavi. Fa tre passi, al quarto si appoggia alla libreria che però ha solo cianfrusaglie argentate e pinocchietti di legno. Neanche l’ombra di un libro. Dove sei stato, chiede Baby K. Puttana, risponde lui.
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Il copione è pronto a ripetersi. In sequenza: piatto di pasta scagliato a terra, in mano una 66, nell’altra la cinta del Charro. Il solito, pensa Baby K qualche secondo prima dell’impatto.
Finiscono entrambi sul letto IKEA a una piazza e mezzo regalato dalla mamma di Baby K poco prima del matrimonio. Lui dorme, lei piange. Al mattino c’è un concerto dei Gorgoroth nella testa di lui, che con fare sonnambolico cerca Baby K sul cuscino. È il suo modo per scusarsi, vergognarsi, redimersi e un altro centinaio di cose.

Abbiamo deciso volontariamente di fermarci qui e non spargere ulteriore sale sulla ferita creata da questa grande artista contemporanea. Con il suo ultimo singolo, Baby K sguazza in un costante paradosso tra Chupa Chups e iperrealtà. Un’attimo prima Willy Wonka, l’attimo dopo Pasolini. Ma l’obiettivo di una ricetta così destabilizzante non è l’agrodolcezza. Baby K ci mette alla prova perché vuole sapere chi siamo e dove ci collochiamo nella gerarchia umana. Sei sveglio o ancora dormi? No perché c’è un mondo di dolore lì fuori, che fa male nonostante questo latex rosa.
La nostra speranza, la speranza di chi scrive, è che alla prossima conversazione disimpegnata fuori da un locale o, non so, davanti ad uno schermo, si possa affrontare l’argomento Baby K in maniera diametralmente opposta. Ma non facciamoci troppe illusioni. Continueranno a darle della facilona, della material girl, della soubrette da canzonetta estiva.
Si, come no.

 

Quello che c’è dietro la sacrosanta battaglia per i diritti gay non vi piacerà affatto.

Il gay topic è tornato alla ribalta these days.
Li facciamo sposare? Non li facciamo sposare? Saranno dei buoni genitori o non lo saranno affatto? Domande che in un mondo ideale troverebbero solo una risposta: ma fai un po’ come cazzo te pare.
Nonostante le più basilari regole dell’instant marketing mi obbligherebbero a dover scrivere del Ddl Cirinnà, mi esimerò dal parlare dei recenti fatti. Anzi, in un bailamme di controculturismo, vi chiederò di ascoltare questa mia idea riguardante i fatti di alcuni anni fa.

Siamo negli States e la notizia della legalizzazione dei matrimoni gay ha appena fatto capolino. In una decina di secondi il mondo sprofonda in una forma antica di isterismo collettivo, tanto da doversi inginocchiare a quella irresistibile voglia di Arcobaleno.

“L’arcobaleno, devo far vedere a tutti un arcobaleno” – pensa Rosalba, sarta di Petrucco in provicia di Potenza.

Mi trovo oggi costretto a rivangare quei giorni. Lo so che è difficile relazionarsi con qualcosa che non è presente sulla nostra timeline e che addirittura è stato scavalcato da ben altre notizie quali:

  1. Tutta quella storia della Grecia che fa il vento e non paga.
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  2. L’hai vista la prima foto di Plutone?
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  3. Hanno scoperto un pianeta dove praticamente è tutto uguale alla Terra.
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  4. Quel bambino sulla spiaggia morto.
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  5. Jhonny Depp grasso.
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  6. Je suis Paris
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  7. Capodanno con bestemmia
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Incredibile vero? Ne abbiamo scrollate di cose in poco meno di un anno. Certo una cosa è scrollare Plutone, una cosa è scrollare un bambino morto. Oppure no. Sono quasi convinto che se lo scrollo, allora non è mai successo. Farò così con i miei problemi? Ho il diabete: scrollo. Mio figlio si droga: scrollo.
È curioso come il verbo scrolling in inglese venga tradotto in italiano con “scrollare”, un adattamento alquanto ambiguo. Ci si scrolla di dosso una persona indesiderata, una brutta giornata di lavoro o un periodo cosiddetto no.
Oggi lo scrolling non è solo una questione gestuale. Ha preso ad essere il modo in cui fruiamo il mondo circostante, dalle nostre relazioni personali alle notizie di attualità. Stesso gesto per esperienze diverse. Questo le rende uguali? Non proprio. Ma le deforma. E la forma è importante, Adele ce lo insegna.

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Ma qui la retorica su quanto siamo diventati insensibili non centra. Centra il fatto che non mi sembrava plausibile che un paese che spara in petto ai bambini neri disarmati, non firma un trattato di Kyoto da quando è stato redatto nel 1996, ha in attivo 134 guerre nel mondo tra operazioni di terra, consulenze e missioni speciali (si sto parlando degli Stati Uniti), si svegliasse di punto in bianco con il desiderio di difendere i diritti dei gay.

Non so come volete metterla, ma è così. Non aveva senso.

Perché mai gli Stati Uniti hanno deciso di schierarsi dalla loro parte?

È il 2013 quando, in un palazzo molto alto e molto rettangolare, 278 multinazionali tra cui Amazon, Facebook, Apple, Starbucks, Twitter, Goldmann Sacks, Deutche Bank, Nike, Pfizer e Disney decidono di firmare un documento in cui si richiede esplicitamente alla Corte Suprema di dichiarare incostituzionale il Defence Of Marriage Act, il cosidetto DOMA, quello che dice che la gente dello stesso sesso non può sposarsi.
Il 26 Maggio 2015, dopo una pressione esasperante delle suddette multinazionali durata appena due anni, il governo degli Stati Uniti legalizza i matrimoni gay.

Il documento lo trovate qui. La lista impressionante delle corporation inizia a pagina 16.

Employers DOMA Brief

Fino a qui tutto bene. Cosa c’è di male, un’azienda si schiera a favore dei più deboli. Ok, suona che è una merda, però dai, alla fine può succedere.
La questione sta tutta nelle motivazioni. La richiesta viene giustificata così.
A seguire una contributo tra citazioni testuali del documento e interventi dei singoli dirigenti:

“Il DOMA costringe le aziende a dividere i dipendenti in due categorie. Dobbiamo amministrare piani di assistenza e assicurazione sanitaria, pensionamenti, congedi familiari. Trattare in due maniere diverse i dipendenti etero ed omosessuali costa troppo e se i secondi vedono riconosciuti i loro diritti sono più contenti e lavorano meglio. Il matrimonio rende le persone più solide contro gli shock finanziari e meno probabili che possano avere bisogno dell’assistenza sanitaria”. 

La reazioni del 99,8 % dei brand è degna della più massiccia class action dai tempi di Spartaco, lo schiavo che voleva liberare tutti.

Google

Kellogg’s

Cheerios

Nasdaq

Coca-Cola

Budweiser

KFC

Starbucks

American Airlines

Visa

Questo è il mio preferito. Goldman Sachs

E potremmo andare avanti per giorni.
Alla luce di ciò, mi sembra di aver capito due cose:

  1. Ai capi supremi non interessa dove metti il cazzo basta che lo fai con un iPhone in mano, mentre twitti che hai voglia di cazzo, mentre sorseggi un Frappuccino, mentre guardi il Re Leone.
  2. Stiamo affidando al Capitale le nostre future conquiste sociali. Non più il sangue delle rivolte, le manifestazioni, i dibattiti e le sincere e collettive prese di coscienza. Di base se convincessimo Zuckerberg che ogni volta che uccidi un nero il Nasdaq ha un sussulto in negativo, allora avremmo veramente fatto del bene.

Il problema è che non tutte le persone che hanno bisogno di tutela in termini di diritto possono promettere ai propri benefattori un ritorno economico così sostanzioso come invece possono fare i gay. Suona strano ma i gay sono una parte consistente della middle class e, in certi casi, il loro potere d’acquisto è enorme (ogni anno il 30% dello shopping in più rispetto agli etero). Immaginate una minoranza con uno scarso gusto nel vestire, pochi soldi in tasca e un ruolo sociale irrilevante. Quale sarà il destino di questi individui quando proveranno ad alzare la mano? Nessuno lo sa.

Ma cosa te ne frega se l’hanno voluto le multinazionali? – direte voi, – non è comunque un enorme passo avanti?

Il conflitto che sto vivendo è proprio qui e credo sia lecito interrogarsi sulla reale affidabilità del “fine che giustifica i mezzi”.
La cosa che più di tutte mi lascia perplesso è vedere come una lettera firmata da 278 multinazionali possa avere avuto più peso rispetto al sangue versato dai movimenti di liberazione omosessuale nel corso della storia umana, un triste racconto fatto di morti ammazzati, suicidi e campi di concentramento.

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Mi viene in mente Harvey Milk, politico e attivista del movimento di liberazione omosessuale. Nel ’78 venne ucciso in municipio a San Francisco da Dan White, ex consigliere comunale che si era opposto ad una proposta di legge sui diritti gay. A White venne concessa l’infermità mentale. Secondo gli psicologi che lo esaminarono White mangiava troppo cibo spazzatura, chiaro sintomo della sua instabilità mentale. Milk divenne un simbolo, White si sparò dopo 7 anni di prigione.

Voglio dire, è dalla notte dei tempi che gli omosessuali chiedono aiuto. Il Diritto ha sempre considerato questa richiesta d’aiuto come qualcosa di cui poter fare a meno, per non parlare della scarsa apertura mentale dell’uomo medio a quel tempo.

Il punto su cui vorrei soffermarmi è questo: al di là della fitta coltre di arcobaleni vedo un futuro in cui se gli istinti giustizialisti che sentiamo crescere in noi non porteranno benefici in termini economici alla Kellogg’s di turno, allora non li vedremo mai realizzarsi.
L’ennesima stoccata del Capitalesimo è evidente. Lo è nella modalità con cui questa legge (e le future leggi) passeranno, non nella legge stessa. Sorvolare sulle modalità del progresso vuol dire delegare ad altri le responsabilità morali ed etiche che dovrebbero essere nostre. La svolta egualitaria delle leggi sui matrimoni tra persone dello stesso sesso viene ridotta ad un mera questione economica. La modalità con cui l’uomo migliora la sua condizione, nonostante rappresenti il più delle volte un percorso fatto di lacrime e sangue, descrive la natura della stessa conquista. È faticoso evolvere perché è giusto. Il pattern per cui il denaro spiana la strada ai nostri diritti è un germe che finirà per manomettere l’eterna guerra tra oppresso e oppressore, in cui il primo perderà progressivamente il suo potere sul secondo.

Trattare in due maniere diverse i dipendenti etero ed omosessuali costa troppo e se i secondi vedono riconosciuti i loro diritti sono più contenti e lavorano meglio”.

Costa troppo. Lavorano Meglio.
Alla fine dei giochi abbiamo sostituito Martin Luther King con Steve Jobs, una canzone di John Lennon con un cartone della Disney. Persone giuridiche prendono il posto dei profeti classici, in una visione religiosa del consumo.

E c’è dell’altro. Non solo le multinazionali tengono le redini del nostro progresso sociale ma sfruttano questo progresso in termini di comunicazione. Si fanno bandiera del bene conquistato e trasformano il profitto in una forma di etica. Goldman Sachs che twitta #LoveWins è uno dei momenti più bassi nella storia dell’umanità.
Per concludere credo che bisognerebbe tornare ad ascoltare le persone al di là del vantaggio che comporterebbe ascoltarle. C’è un momento in cui sociale ed economico prendono due strade differenti, in cui uno non può più influenzare l’altro.
Ad ogni modo sono fermamente convinto che il 25 giugno 2015, non solo la comunità gay, ma tutto il mondo lo abbia preso nel culo.

È sottile il paradosso che penso di aver colto. Spero di essere stato chiaro.

 

LA PLUS SIZE REVOLUTION E’ UN INGANNO.

Che poi chissà quando è successo. Intendo il momento esatto in cui hanno deciso che sarebbe andata così, come se la Storia fosse una sceneggiatura da scrivere. Immagino una stanza dall’arredamento eccentrico, addirittura futuristico, ma con dei particolari retrò come le candele ad olio o, che ne so, lo schiavo negro. Saranno stati vecchi? Si di certo sono stati dei vecchi. Una qualche branca mondialista dal sangue misto Rothschild – Rockfeller.

– Jacob abbiamo un problema.

– Che tipo di problema?

– Gli ultimi dati sull’obesità.

– E quindi?

– E quindi c’è un problema.

– Non ti seguo.

– Sono grassi.

– Chi?

– Tutti.

– Non ti seguo.

– Mi ha chiamato Erling Persson.

– E chi cazzo è Erling Persson?

– Quello di H&M.

– Ma dai.

– Si. Non è affatto contento. Gli va tutto male.

– Cazzate.

– …

– E perché gli andrebbe tutto male?

– I dati sull’obesità.

– Ancora con ‘sti dati.

– Aaaah, vaffanculo Jacob.

 Tecnicamente un trend è un cambiamento consistente del comportamento di una popolazione fatta di individui ma io non credo molto ai trend. E non perché detenga particolari verità ma perché gli egiziani un giorno hanno deciso che quando si disegnava un piede quel piede doveva essere lungo due quadrati. Non tre, cinque o nove, ma due. Qualsiasi fosse il luogo, un piede doveva essere lungo due quadrati. Questa storia è andata avanti per 2000 anni. Per 2000 anni il piede egiziano è stato rappresentato lungo così. Stop. Il cambiamento in quel caso è stato imposto, il comportamento degli individui di fronte al cambiamento è avvenuto postumo.

Non ricordo bene quando l’ho cominciato a notare, ma se mi conosco bene l’ho notato subito. Ho 28 anni e checché ne dicano i più vecchi ne ho viste abbastanza. C’ero durante lo scandalo anoressia, c’ero durante il fenomeno “vodka negli occhi”.

vodka occhi

C’ero durante Berlusconi 1.

berlusconi

Berlusconi 2.

berlusconi corna

Berlusconi 3.

berlusconi bandana

E Berlusconi 4.

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E già quest’ultimo da solo mi concede il privilegio dell’arroganza. C’ero soprattutto quando così, di punto in bianco, ho visto nascere e crescere l’orgoglio dei ciccioni. Sempre odiati io i ciccioni. Ah si. Ma questo è un altro paio di maniche. Torniamo a parlare di voi.

La branca mondialista di sangue Rothschild è stata più astuta del solito data la modalità di assunzione che hanno scelto per questa ennesima pillola. Hanno cominciato piano per poi far scorrere l’ortaggio. Un giorno mi sono svegliato e Vogue, Cosmopolitan, Vanity Fair, Elle, Glamour e tutti gli altri avevano buttato al cesso Kate Moss insieme ai suoi millemila pezzi di merce purissima e l’avevano sostituita con delle cicciepanze.

vanity fair curvy title

Mi sono stropicciato gli occhi, toccato il cazzo, dato due schiaffi perché mi sono detto non è possibile, sto ancora dormendo, ci dev’essere uno sbaglio. Allora sono corso dall’Oracolo e in ginocchio ho urlato “Google dimmi cosa devo pensare perché io proprio niente”. Ed era successo. O meglio: stava succedendo. Il canone estetico, quello su cui io stesso avevo fondato tutta la mia intera esistenza, stava cambiando. Non ho niente contro l’omologazione quindi c’ho provato. Ho guardato quelle maniglione rosa, quelle bucce d’arancia, quel doppio mento alla Giuliano Ferrara, quelle dita tozze ma poi ho chiuso tutto e sono corso via. “A me non piace!” ho urlato in strada e le parole che gli occhi dei passanti mi hanno cominciato a tirare erano parole di odio, quelle che rivolgi a chi pensi sia un razzista, un pedofilo, un omofobo, un’antisemita. “Brutto pezzo di merda, curvy è bello!” ho sentito urlare l’edicolante. “Ma Jerry com’è possibile” gli ho detto, “fino a ieri eravamo li a segarci su Adriana Lima”, ma lui non ha voluto sentire ragioni, come se avessero sostituito il mio edicolante con un rappresentante della lobby gay. Quella giornata finì nel peggiore dei modi, digitando “first time anal”.

Oggi sono qui che scrivo e sto decisamente meglio. L’onda non si è ancora infranta, anzi, si appresta a vivere il suo picco. In quel momento dovrò avere i piedi ben saldi a terra per non ritrovarmi con Woopie Goldberg a gambe spalancate, mentre io cerco invano di avere un coito.

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So per certo che la Plus Size Revolution è mia nemica e i dati che ho raccolto e studiato sono dalla mia parte. Seguitemi.

Ad oggi gli obesi nel mondo sono un miliardo, di cui 100 milioni solo negli Stati Uniti, 60 in Cina e gli altri sparsi tra Europa, Americhe e tutto il resto del globo. L’obesità è la prima causa di morte: praticamente nel 2015, con tutti gli iPhone, i satelliti, i droni, i selfie e gli Oscar, l’uomo muore perché mangia la merda. Solo negli Stati Uniti schiattano 300 mila persone l’anno. Non è che fumano, si drogano o che cazzo ne so, giocano con le Smith & Wesson. Muoiono perché mangiano la merda. La mettono sul pane, la cuociono nel forno. Calda, tenera, saporita merda. La ingoiano in clamorose quantità, da quando sono piccoli a quando stanno per dare l’ultimo morso, prima di stramazzare a terra. Sulle tombe scrivono “Beloved Father” che in inglese vuol dire mangiammerda. Il tasso di obesità è cresciuto del 27,9% l’anno scorso, questo vuol dire che nel 2050 andremo in giro come gli uomini di Wall-e, su delle poltrone reclinabili sospese a mezz’aria, con dei Google Glass piantati direttamente nella cornea e l’impossibilità di avere un qualsiasi contatto con il mondo materiale, perché avremo troppo tessuto adiposo sotto le ascelle per poter muovere il braccio e prendere quel bicchiere di fronte a noi.

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L’obesità si scriverà nel nostro tessuto genetico e sforneremo essere viventi ammaccati, con problemi alla schiena, ciechi e soprattutto molto infelici. Detto ciò vado ad abbracciare la mia ragazza perché sento crollare in un attimo tutte le sfighe che penso di avere sopra la testa e faccio per riempirmi il cuore di autentica gioia cattolica.

Per concludere. Jerry non è più mio amico perché abbiamo delle idee completamente diverse sulla Plus Size Revolution e questo ha fatto si che non ci parlassimo più. Sono dietrologo da quando sono nato: in pratica quando è scoppiata Calciopoli non ho mosso un muscolo, già sapevo tutto. La dietrologia è uno strumento di contrasto che si aziona nella mente delle persone quando vedono qualcosa che non rispetta i paradigmi del senso, reduci di un iter millenario fatto di buoni libri, grandi filosofi e imprese altrettanto grandi. Cosa sta succedendo quindi al mondo intero e perché da un giorno all’altro i ciccioni stanno entrando nella cerchia degli J&F, gli intoccabili Jewish & Faggots?.

L’idea che mi sono fatto è che la moda si stia piegando ai dati sull’obesità e sulla prospettiva futura di non poter più vestire ragazze dalle clavicole sporgenti ma bensì sacchi di merda ambulanti, galline dalle uova d’oro delle cause farmaceutiche. Introducono la loro proposta di rivoluzione in maniera lieve: qualche chilo qua, qualche maniglia là. E’ un po’ come se ci svegliassimo tutti con un terzo braccio piantato in mezzo alla schiena e nessuno potesse più comprarsi le magliette con due maniche sole. Cosa farebbe H&M? Cosa farebbe Armani? Metterebbe in commercio magliette con tre maniche e direbbe che è incredibilmente cool. Quel miliardo di obesi che danzano pachidermici sul suolo terreste non può più andarsi a vestire da Pitran, o meglio, non può più starsene in disparte, in imbarazzo, depresso, bullizzato e con il suo profilo fake su Instagram. Ricordo di aver letto un’intervista a riguardo, era Gwen DeVoe ad essere citata, una famosa plus size model reginetta della Full Figure Fashion Week, la fiera del ciccione vestito di marca. Parlava del suo approccio con la moda prima della Plus Size Revolution. Parlava riferendosi ai vestiti che vedeva nei negozi e sui giornali.

None of this things are for me. And not because I wasn’t a buyer – because I had the money. But because they didn’t come in my size. Non credo si possa essere più chiari di così.

gwen devoe

Detto ciò, a nessuno piace essere un obeso e a nessuno piacerà mai. “Sei bella come sei” un par di palle. Ti stai ammalando e invece di farti dimagrire e proporti la nuova collezione, cuciono la nuova collezione addosso ad un ippopotamo, così sono sicuri che ti sta.  Il nuovo trend non è frutto di una miracolosa apertura mentale dell’uomo contemporaneo: abbiamo delegato i nostri gusti a delle corporation le quali costruiscono i loro profitti sulla vestibilità dei loro prodotti. Siamo obesi, siamo tanti, e quella magliettina non ci entrerebbe neanche per calzino. Se fossi obeso sarei furioso. Mi avete umiliato per 50 anni ma ora che ho un esercito alle spalle che pesa quanto me, mi buttate sulla copertina di Vanity Fair. Ma non lo sono, non sono obeso e tutto ciò che ho da aggiungere è che rivoglio le mie cazzo di anoressiche con le caviglie rotte, isteriche e inginocchiate davanti al cesso mentre vomitano il mais geneticamente modificato della Monsanto.

Minilogue: Studio Jam Session.

“HARDVERTISING” – TORNO A PARLARE DI PORNOGRAFIA.

Torno a parlare di pornografia dopo un silenzio di quasi due anni. Intendiamoci, non ho smesso e magicamente ricominciato a farmi le seghe ma un anno ormai corrisponde a dieci se parliamo di limite del pudore e se pensiamo a cosa ci indignava ieri è senz’altro quello che oggi ci passa sopra come niente fosse. In questo periodo di silenzio mi sono aggirato educatissimo attraverso i meandri dell’industria del porno, prendendo nota dell’evoluzione sostanziale che il consumatore medio (ovvero io) ha intrapreso durante i suoi momenti più intimi. Già da parecchio tempo tra i miei amici gira la voce che farsi le seghe è cosa ben distinta rispetto al fare l’amore e che anzi, farsi le seghe è una cosa, fare l’amore è un’altra. C’è quindi da dire che la masturbazione nel 2014 si è ormai totalmente svincolata dalla presenza o meno di una ragazza nella vita di chi si masturba. Questo vuol dire che se non ho la ragazza mi masturbo e se invece ce l’ho mi masturbo comunque, un’assioma piuttosto elementare che però spiega quanto e come fruire di materiale pornografico soddisfi oggi un bisogno che non ha niente a che vedere con quello sessuale. In tutto ciò bisogna tener conto che si parla di “industria” del porno, in quanto i profitti, gli investimenti e, più in generale, il giro di affari ha toccato cifre talmente alte da far voltare tutti di scatto, Chiese, lobby e governi compresi. Si è vero, le piattaforme gratuite hanno cannibalizzato il mercato facendo crollare il fatturato del 60% in pochi anni, ma è vero anche che io non ho mai investito nella pornografia, almeno non in termini economici, quindi sarebbe pressoché ridicolo interpretare il ruolo di chi è dispiaciuto per la piega che l’industria ha preso.

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Da fruitore “skilled” quale sono per me il porno è vivo e vegeto e se non fosse così allora non sarei qui a scrivere dell’enorme boom che ha avuto la pubblicità sulle miliardi di piattaforme su cui oggi è possibile concedersi una fredda e laconica intimità. Perché la pubblicità? Bella domanda. La pornografia è un settore commerciale come potrebbe essere quello tessile, o che ne so, quello farmaceutico. Quando c’è bisogno di vendere un vaccino ci si inventa la SARS, quando arriva l’inverno dovresti comprarti un bel maglione. Ma quando accendi il computer la dimensione cibernetica diventa così totalizzante da proporti la possibilità di avere una sessualità alternativa, praticata da un te virtuale, che non è  quello che la mattina si sveglia e va a lavoro, ma è piuttosto una scarica anticonforme, un’eritema che puoi facilmente nascondere una volta chiuso il computer. Da qui quella sensazione che tutti abbiamo di conoscere delle persone benissimo e poi di non conoscerle più nella loro dimensione virtuale (più specificatamente nel social network). Tornando all’aspetto pubblicitario dell’industria del porno è chiaro come il messaggio rivolto al consumatore prenda sfumature bizzarre, a volte addirittura grottesche. In quest’aspra guerra per accaparrarsi nuove utenze rimango affascinato da come la semiotica pornografica abbatta qualsiasi barriera di morigeratezza, sovrastando l’universo delle allusioni, un universo da sempre caro alla necessità che la pubblicità ha di trasmettere il senso del messaggio (“compra quel rossetto, mettilo sulle labbra, tra l’altro se lo guardi bene sembra proprio un cazzo”). E’ dunque così che sono andato a scontrarmi con l’assenza completa del subliminale, parafrasi perfetta dell’istinto che gli uomini hanno di eiaculare: rovinoso, eccessivo, eclatante e a volte irrispettoso. Spesso il contenuto dell’advertise elude all’aspettativa che il consumatore ha di incontrare persone reali. Non credetegli: l’internet è fatto per  farti restare sull’internet. Così RagazzaEccitata(23) asseconda il bisogno che ha l’uomo di deresponsabilizzarsi da una coscienza collettiva che lo vuole “essere pensante”, chiedendomi subito:

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C’è poi chi come lei, una ragazza con addosso delle evidenti quantità di sperma, quasi mi vuole far vergognare. Una volta ancora l’immagine parla di una donna con una mente da uomo, una donna che fa sesso velocemente e poi tutti in balcone a fumare.

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A volte puoi imbatterti in contatti Skype che non credevi di avere, come nel caso di fresca_ragazza.

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O come nel caso di Renata.

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C’è anche chi sta talmente avanti da non farti neanche più vedere zinne e culi, ma che preferisce sbandierare ai quattro venti uno dei segreti più inenarrabili della storia moderna, ovvero che Facebook ha 2 miliardi di utenti che usano Facebook perché vogliono scopare.

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In questo qui invece c’è dietro Freud: l’eiaculazione come gesto liberatorio nei confronti delle cose del mondo. La macchina dell’advertise sa bene quando una mente è più propensa a comprare, per questo hanno inventato lo stereotipo del bambino che accompagna la mamma a fare la spesa. “Nessuna stronzata” dice il riquadro, come ti direbbe un maresciallo dei Carabinieri.

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E’ il momento dell’assalto doppio quando una ragazza “brutta ed eccitata” si regge dei sacchi di sabbia con l’avambraccio. La ragazza in questione non è brutta, ma il fatto che si autodefinisca brutta mi porta a pensare che sia facile. In coppia con lei c’è una mamma che sa bene quanto la vita possa fare schifo, soprattutto dopo aver sgravato un poppante.

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Qui invece una delle mie preferite. Un sopraffino gioco sinestetico.

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A volte puoi incontrare Sara Scazzi.

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O la Sexy Tribù, una specie di confraternita cattolica in cui la sagrestia è del free anal sex.

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Senza dimenticare i nuovi mercati, come quello musulmano. Niente viso, accontentati del culone.

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L’imperativo categorico IO SCOPO! mi ricorda la politica dell’ “Obama Care”, una sorta di training autogeno in cui prima devi crederci, tutto il resto verrà da se.

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C’è Claire che mi cerca come farebbe un’intelligenza artificiale. Dove sei? Dove sono Claire? Dimmelo tu dove sono, perché io credo di essermi appena perso.

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Il tour finisce quando si manifesta il culmine del paradosso cibernetico, come quando la Marlboro stanzia 12 milioni di dollari per la lotta contro il cancro. Come quando ti fai l’ultima pera e giuri che sarà l’ultima.

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Scherzi a parte, la dipendenza sviluppata dalla visione della pornografia fa parte di uno dei disturbi più diffusi oggi e meno trattati: lo IAD (Internet Addiction Disorder) una patologia che ha degli effetti devastanti sulla nostra vita reale. Judith Reisman, autrice di The Psychopharmacology of Pictorial Pornography (La psicofarmacologia delle immagini pornografiche) qualifica la pornografia come “erotossina”: “La pornografia agisce sul cervello come una droga – è una droga. Guardare film hard infatti rilascia una dose di adrenalina che viene assimilata dal corpo, oltre a una secrezione di testosterone, di ossitocina, di dopamina e di serotonina. È un cocktail di droghe. La pornografia è un eccitante estremamente potente, che provoca euforia”. 

Ancora una volta l’intelletto umano si ritrova a rimbalzare da una dipendenza all’altra, complice della sua stessa collettività che lo vuole acquirente non solo di cose, ma anche e soprattutto di sensazioni. Guardare scopare la gente è un passatempo antico quanto il mondo. Commercializzare questo passatempo e quindi introdurre l’aspetto economico in esso vuol dire privarlo del suo principio sano e istintivo, un principio naturale che mai andrebbe contro la progressione dell’uomo verso condizioni migliori.

HO VISTO ELYSIUM E GRADIREI CHE QUALCUNO RICONSIDERASSE L’EFFETTO CHE LA FANTASCIENZA HA SUL DESTINO REALE DELL’UOMO.

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Ho visto Elysium, un film sul futuro. E’ il 2154 e la terra è super inquinata. Quelli che ancora ci vivono sono poveri ed ammalati.

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Il resto dell’umanità, quello ricco e benestante, vive in una stazione spaziale in cui è stato ricreato un habitat terrestre che assomiglia molto a Beverly Hills, la famosa città nella Contea di Los Angeles.

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Fin dal principio questa stazione, Elysium appunto, nonostante sia l’unico luogo in cui l’aria è pulita e la vita è decente, viene descritta in modo negativo: chi ci vive infatti è identificabile come un agglomerato di spietati business man al soldo del profitto, un’élite capitalista sopravvissuta alla fine del mondo. La trama si sviluppa seguendo dei canoni piuttosto banali. Il nostro buono è un ex-cattivo, Matt Damon: una volta era un criminale, di quelli che la società riconosce come tali, quindi affetta dalla triade ladro-tatuato-povero.

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Poi un giorno ha detto basta con il crimine e ha deciso di andare a lavorare in fabbrica, per l’esattezza in una fabbrica che costruisce droidi, gli stessi droidi-poliziotto che mantengono il difficile ordine sociale sulla terra. Di qui la prima metafora trita e ritrita dell’uomo assemblatore della propria rovina. Matt Damon, dopo essere rimasto vittima di un incidente sul posto di lavoro, viene esposto ad una scarica problematica di radiazioni che gli lascia 5 giorni di vita. L’unico modo per sopravvivere è andare su Elysium dove le persone posso curarsi dalle malattie grazie a lettini meccanici che sono capaci di espellere qualsiasi male dal corpo umano. Intanto la situazione su Elysium è piuttosto instabile: Jodie Foster, il Segretario di Elysium, complotta contro il Presidente, ritenuto un po’ frocietto nei confronti della politica da usare con gli immigrati terrestri che ogni tanto, grazie a futuristici scafisti, vengono scaricati su Elysium in cerca di cure e una vita migliore. Jodie Foster preferisce sterminarli quando sono ancora nelle vicinanze di Elysium. Il Presidente vorrebbe affrontare la cosa in modo decisamente più umano.

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Il film si conclude come si è svolto, banalmente. Matt Damon, dopo interminabili e rumorosissime peripezie, riesce a sbarcare su Elysium ed utilizzare i dati super segreti che intanto si è installato nel cervello per resettare il sistema e concedere la cittadinanza a tutti gli uomini indistintamente. Jodie Foster riesce a prendere il potere ma poi finisce uccisa perché è cattiva.

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Matt Damon muore ma facendolo riesce a liberare l’umanità da questo fascismo classista in cui se sei povero hai il cancro e se sei ricco hai la Bugatti. A proposito di questo ultimo particolare vorrei ora esporre il motivo per cui ho sentito il bisogno di esprimere la mia opinione su di un film cosiddetto “di merda” che probabilmente è già finito nel dimenticatoio, ancor prima di essere visto. Tutti sappiamo che Hollywood, il cinema e la letteratura parlano al mondo più di quanto lo facciano i nostri rispettivi Presidenti durante il discorso di fine anno. In particolare i concept fantascientifici riescono ad ottenere l’ambitissimo ruolo di timonieri attraverso le acque della storia umana, spingendosi oltre la sottile linea dell’immaginazione. Esempi lampanti li abbiamo avuti con Asimov, con Philip Dick, con 1984 e tanti altri. L’arte e la cultura più in generale non descrivono solo l’uomo nell’immediato presente ma riescono a trarre dal suo presente anche il prossimo futuro (Bakunin nei primi del ‘900 scriveva come il soldato tedesco fosse particolarmente adatto al rispetto degli ordini, al di là della loro valenza morale; sappiamo tutti cosa è successo 30 anni dopo). Questo per dire che nella storia non è mai successo qualcosa che l’uomo non avesse già immaginato. Ma accantoniamo tutto questo per un istante e torniamo al film che ho visto, Elysium. Nella seconda metà del film, quando buoni e cattivi sono ben distinti e la trama è ormai avviata, c’è un fotogramma che mi ha spinto a riflettere per la prima volta durante tutta la visione. Jodie Foster sta per esercitare la sua malvagità. La situazione è tesissima e le scene di azione si susseguono freneticamente. Ha bisogno di sapere che ora è e quello che fa è scansare la manica per scoprire il polso e guardare l’orologio. Quello che indossa è un bracciale d’oro laccato, molto spesso. Vicino allo schermo la camera fa vedere chiaramente la marca di quel bracciale-orologio: l’oggetto è di Bulgari.

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Jodie Foster, perfida donna politica dalle sembianze gendarmiche che preferisce sterminare i poveri e gli ammalati piuttosto che impegnarsi nel difficile cammino dell’assistenza e l’integrazione, veste in maniera elegante un orologio di Bulgari che nel 2154 è viva e vegeta, insieme ai suoi affari. Quello che tecnicamente viene chiamato “product placement” è lo strumento attraverso il quale si pianifica e si posiziona un marchio all’interno di un prodotto cinematografico a fronte del pagamento di un corrispettivo da parte dell’azienda che viene  pubblicizzata. Nel mercato dell’advertise le tecniche e le strategie di guadagno sono molteplici e la figura del creativo spesso è chiamata ad immaginare sempre nuovi linguaggi per spingere un determinato prodotto. Bulgari, come Mercedes, come Adidas, come Coca-Cola vanno a braccetto con tutto quello che è entertainment. Ma sappiamo tutti che un film non è solo un prodotto commerciale. Un film, come un libro o un quadro, nonostante possano essere frivoli, fantasiosi, splatter o addirittura brutti, parlano e ci parlano. Nel pacchetto cinematografico che mi è stato proposto il regista di Elysium, e tutto il suo entourage, ha immaginato un futuro oscuro, in cui l’umanità è ammalata e divisa. Nell’universo fantastico da lui descritto non siamo riusciti a fermare le grandi piaghe che già oggi attentano alla nostra sopravvivenza: inquinamento, povertà, epidemie, dispotismo e sfruttamento scellerato delle risorse umane. Quando i responsabili della comunicazione del progetto cinematografico Elysium hanno cominciato a muoversi in cerca di finanziamenti hanno incontrato Bulgari, la quale è venuta incontro alle esigenze di mercato piazzando il proprio brand nella pellicola. Dunque Bulgari non ha avuto problemi: nel 2154 vestiamo un sanguinario protagonista politico che, alla luce del Sole, mantiene la pax grazie a tecniche disumane di sfruttamento del prossimo tenendolo lontano dalle svolte tecnologiche che potrebbero rendere a tutti l’esistenza migliore. Sarò ingenuo e spocchiosamente idealista ma questo mi ha ferito. Allora cosa ho fatto, mi sono andato ad informare sul film, cercando un qualche riferimento che parlasse di questo argomento. Scopro così che non solo Bulgari ma anche Armani ha collaborato con Elysium, dotando Jodie Foster di un  bellissimo tailleur grigio da donna in carriera. Nell’intervista rilasciata da Armani, lo stilista italiano confessa:

Collaborare con artisti del calibro di Neill Blomkamp (il regista di Elysium) e April Ferry (la costumista) a questo progetto è stata un’esperienza unica. E il piacere più grande è stato poter vestire Jodie Foster, alla quale mi lega un’amicizia di lunga data. Jodie è da sempre una delle mie attrici preferite: di lei ammiro il lavoro, il talento e la vita. Mi ha conquistato il modo in cui ha interpretato il suo ruolo ambientato nel 2154, conferendo ai miei abiti un fascino senza tempo”.

E poi trovo un’altra intervista, questa volta alla costumista del film, April Ferry.

Siamo grati a Giorgio Armani per aver creato un guardaroba perfetto e uno stile unico e raffinato per il Segretario (Jodie Foster in Elysium). Le linee pulite dei suoi abiti riflettono perfettamente il mondo ermetico e incontaminato di Elysium e, insieme alle molte collaborazioni passate e all’intesa dello stilista con Jodie Foster, hanno reso questa scelta la più naturale. Il guardaroba è risultato perfetto per il personaggio, l’attrice e il film”.

A questo punto il mio sgomento è duplicato e il mio idealismo è sfociato nell’isolamento completo nei confronti del mondo in cui vivo. No, mi sono detto. Non può essere così. Ho interpretato così per un attimo il ruolo di chi avrebbe potuto non sostenere i miei sospetti. Se un mercante di bambini in Bangladesh porta le Nike non è colpa della Nike. Se un boia dei rivoluzionari dello Zimbabwe beve una Coca-Cola prima di tagliare le mani ad una vedova infedele non è colpa della Coca-Cola. Se George W. Bush va pazzo per il tabasco McIlhenny non è colpa della McIlhenny se sono morti mezzo milione di civili in Afganistan. E via dicendo per tutta la storia umana. Mi sono detto ok, è vero. Questo ragionamento ha senso. E’ lecito. Poi però ho pensato che quello che distingue le stragi di bambini in Bangladesh dallo sterminio degli immigrati in Elysium per mano di Jodie Foster non è solo la dimensione reale ma anche e soprattutto la dimensione temporale. In Elysium infatti non parliamo di presente, ma bensì di futuro, indeterminato e tecnicamente casuale. Dunque la rilevanza che ha un film è e dev’essere semplicemente di tipo economico? Ho pensato si, certo. Elysium è un Blockbuster che verrà dimenticato dall’umanità in un nano secondo. Ma se è veramente così, perché nell’intervista rilasciata da Armani lo stilista parla di “modo in cui si interpreta il personaggio del Segretario”, donando a tutta la questione un rilievo prettamente lavorativo, mentre invece la costumista del film, April Ferry, parla di “linee pulite degli abiti che riflettono perfettamente il mondo ermetico e incontaminato di Elysium”, falsificando così la reale impressione che Elysium e il suo Segretario hanno sullo spettatore? A quel punto la mente è andata ad un altro esempio, questa volta addirittura spudorato, di confessione di intenti:

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L’ambiguità del movente che spinge il grande brand a fraternizzare con il male assoluto è colpevole di omettere il proprio intento finale dietro il grande inganno di quello che erroneamente viene spesso confuso con intrattenimento. Il fatto su cui però la nostra mente fa da sempre leva per spiegare la triade su cui la storia si muove (passato, presente e futuro), e che svela così la cattivissima fede del product placement nei film futuristici è che lo stesso trattamento distaccato non viene riservato per quello che concerne i film sul passato (non si è creata la fila per vestire Amon Goth, l’ufficiale nazista di Schindler’s List). Dunque in che cosa è diverso il passato dal futuro? Perché Bulgari preferisce vestire un nazista del futuro piuttosto che uno del passato? Perché il futuro viene preso così sottogamba e perché esiste un’apparente etica del profitto solo nel caso in cui i fatti siano già successi? Cosa ci permette di pensare che la fantascienza sia solo e soltanto fantascienza e non la strada ancora imbattuta del nostro cammino attraverso il tempo? Intervistato da Wired, il regista ha spiegato che Elysium «non contiene un messaggio politico», insistendo anche sul fatto che “non è una trasposizione cinematografica di un editoriale di Paul Krugman“, il noto economista ed editorialista di sinistra americano.

A mio avviso Elysium è un film politico come lo sono tutti i film e i libri che parlano di fantascienza. Il dispetto più grande che facciamo al presente è quello di ascoltare solo uno dei suoi due fratelli. Nessuno sa se Bulgari sopravviverà al tempo ma di una cosa sono intimamente sicuro: il male, il potere e il denaro adorano farsi notare. Paradossalmente quando si parla di media la sola intenzione criminale andrebbe additata come inaccettabile perché l’influenza che ha sulla nostra immagine di futuro incrementa la tendenza a far si che quel preciso futuro si realizzi. In tutto  ciò è chiaro come l’impero delle holding si veda sopravvivere ai disastri umani rendendosi addirittura estranea alle questioni terrene  e proiettandosi in un domani in cui l’umanità è alle porte dell’estinzione. In questo scenario apocalittico Bulgari c’è e veste con classe il fautore della nostra rovina sguazzando nel disinteresse di chi ha l’illusione di sopravvivere attraverso l’universo, il tempo e la vita. E’ vero, tutto ciò è forse esagerato e qualcuno potrà dire che i miei ragionamenti fanno leva su un film e che quindi non vanno presi in considerazione. Io invece penso che un film non sia solo un film e che se Elysium è solo un film allora il Mein Kampf è solo un libro. 

MISERABILE MATERIALMENTE MA MORALMENTE INCROLLABILE. (PARTE SECONDA)

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Non so se qualcuno di voi è mai stato su un Open Bus ma se per caso, per qualche strano motivo, ci siete finiti allora converrete con me che è una delle migliori invenzioni dell’uomo. Un Open Bus è un pullman con 35 cuccette messe in fila e incastrate geometricamente fra loro per occupare meno spazio possibile. Appena entri ti fanno togliere le scarpe e ti danno una coperta di pail e ti fanno accomodare. In Viet Nam (e credo in tutta l’Indocina) sono sfruttatissimi da chi, per questioni di tempo e comodità, preferisce viaggiare di notte. Le cuccette sono comodissime e viene trasmesso in loop su alcuni piccoli schermi degli sketch dello Zelig vietnamita, una fitta serie di calci nei coglioni all’intelligenza umana.

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E’ su queste cuccette che si conclude il giorno che definirei “del meritato riposo”: ci svegliamo che sono quasi le 11 e il tipo dell’hotel in cui siamo ci dice che possiamo lasciare le valigie qui e fare quello che vogliamo, senza dormire e quindi anche senza pagare. Noi accettiamo con piacere e saliamo in sella al motorino per percorrere i 40 km che ci separano da una pagoda cristiana particolarmente grande che si trova a Phat Diem, un paesino limitrofo a Ninh Binh. Il viaggio è lungo e scomodo ma ci permette di attraversare diversi insediamenti rurali, sconfinate risaie e una gran numero di cimiteri. I cimiteri in Vietnam non sono circoscritti in zone troppo definitive, anzi, quasi ti viene da pensare che un morto vietnamita possa riposare dove vuole. Scegliamo di fermarci in uno dei cimiteri più isolati, dopo aver percorso una stradina minuscola.

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Le tombe sono generalmente di due tipi, cristiane e buddiste con la differenze che quelle cristiane sono una triste rottura di palle e quelle buddiste sono spesso colorate e con motivi floreali e animali. Ci fermiamo in un piccolo tempio tirato su per onorare la vita di una vecchietta rugosa. C’è una ciotola di riso, un pacchetto di foglie, banane, varia frutta, incenso e un registratore tascabile che manda in continuazione una nenia di 15 secondi, una preghiera che ripete queste parole “Nam mo a di da phat”. No, non l’ho capito ascoltandolo ma girando il registratore. Sul retro infatti ci sono 7 titoli di preghiere selezionabili spingendo semplicemente l’unico pulsante presente sull’apparecchio. Un metodo elementare per assicurarsi una pace sinfonica (rimarrò così stregato da quella preghiera che poi la ritroverò su YouTube: http://www.youtube.com/watch?v=NfDcqgO4AFU) La nenia ci ipnotizza e ci fa restare lì ancora per un po’ fino a che un contadino ci sorprende a strappare alcune foglie di riso dal terreno e ci invita a fare un po’ meno. Phat Diem non è facile da raggiungere soprattutto perché le indicazioni sono poco affidabili, a volte ci sono e a volte no. La gente del posto, molto divertita nel vedere dei giovani bianchi che pronunciano male i nomi delle loro città continuano a dirci “3 chilometri, 3 chilometri”. Ne facciamo svariati di chilometri e facciamo anche avanti e indietro un paio di volte prima di prendere la svolta giusta e trovare la pagoda che è bella, per carità, ma un po’ troppo piena di cristi e di madonne per i miei gusti.

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Nei cortili verdeggianti all’interno del sito capeggiano in bella vista alcuni immagini dei missionari pedofili che nel ‘90 hanno indottrinato gli indigeni con le verità assolute che tutti noi conosciamo. Mi faccio un giro per le strade del villaggio e ricevo un accoglienza calorosa dai bambini del posto, forse abituati ai missionari cattolici (restando in tema: rincontrerò Giampaolo pochi minuti dopo con una foto di alcuni piccoli vietnamiti in posa come i Power Rangers ma con il pisello di fuori). Quando torniamo al motorino ci fermiamo da un uomo che abbiamo scelto di chiamare il Vecchio Chen, un lurido esemplare di cuoco da strada che per soli 20000 Dong (90 centesimi di euro) ci imbusta degli spiedini di carne dolce che se fosse cane bau, se fosse gatto miao, se fosse tardi ciao. E infatti è tardi e decidiamo di tornare a Ninh Binh. Dopo un paio d’ore siamo sull’Open Bus diretti a Dong Hoi, piccolo centro abitato che ci farà da base mentre entreremo nella selvaggia riserva naturale di Phong Nha Ke Bang.

Il viaggio in Open Bus sarebbe una mezza bomba se non fosse per le scarse capacità dell’autista di mantenere stabile il pullman. Ogni 15 secondi apro gli occhi aspettando l’urto che mi accompagni a miglior vita ma la tortura più grande è quella di tornare subito in carreggiata, con la falsa speranza di trovare un po’ di tranquillità. Sono le 3:30 di notte quando riesco a prendere sonno e come nei migliori cartoni di Paolino Paperino un vietcong mi sgrulla la spalla urlandomi “Dongooèèè”, che sarebbe Dong Hoi, la nostra città-fermata. Scendiamo storditi come appena nati e con noi scendono due coppie di fidanzatini, una belga e una tedesca. Quella belga è composta da una italo-marocchina che, paradosso, odia gli immigrati e il suo boyfriend, un manzo scemo con le movenze irruente dei ragazzi ritardati. Quella tedesca invece è decisamente più piacevole soprattutto per la presenza di Robert, un ex metallaro riciclato emo molto simpatico e dotato di ciuffo. Tutti e sei ci guardiamo intorno un po’ confusi quando, come al solito, anche alle 4 di notte, alcuni uomini del posto compaiono come d’incanto intorno a noi pronti a contrattare per il prezzo del viaggio in taxi fino a Son Trach. Strappiamo una cifra ridicola al povero vietnamita con gli occhi armati di caccole che probabilmente è stato svegliato a calci rotanti in faccia per portare il suo pulmino-taxi li dove siamo noi. In 40 minuti siamo a Son Trach ma non ci rendiamo conto di dove siamo perché appena arrivati c’è da trovare un posto dove dormire e alle 5 di mattina non è proprio come guardarsi un Disney. Riceviamo svariate porte in faccia dai receptionist assonati che non vogliono proprio sentirne di contrattazioni ma vogliono solo fare star zitta la propria moglie che con tono acido continua a ripetergli “Vedi? Sei un fallito Chen, dovevo sposare tuo cugino, tuo cugino Chen!”. Così dopo tre tentativi troviamo finalmente un buon cattolico pronto ad accogliere dei bianchi grassi e arroganti:

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l’Easy Tiger è un posto carinissimo, che ci fa aspettare un’ora e mezza prima di farci prendere le camere. In quel lasso di tempo io mi addormento in piedi una manciata di volte e quando riapro gli occhi, e solo quando li riapro, mi rendo conto di dove siamo finiti veramente. Son Trach è un villaggio nel distretto di Bo Trach, un ammasso di caseggiati (molti di questi in legno)

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distribuiti su una sola via che diventa un sentiero quando incontra il fiume verde che probabilmente non ha neanche un nome. Ci guardiamo intorno per qualche minuto e da qual momento in poi siamo dentro un documentario del National Geographic. Siamo li per un motivo preciso, la sconfinata riserva di Phong Nha Ke Bang, un mix di fiumi in piena, acquitrini, paludi, giungle, altri fiumi e altre montagne a cui sembrano colate addosso le foreste dal cielo. Qui la vegetazione ingloba tutto senza risparmiare neanche gli alberi i cui tronchi si mimetizzano sotto fitti strati di rampicanti. Dormiamo un’ora e alle 9:30 siamo pronti per noleggiare l’ennesimo motorino che però stavolta ha 3 marce, perché ci sentiamo capaci di tutto, perché c’abbiamo 27 anni e una serie di applausi spontanei ricevuti. Abbiamo deciso di fare coppia con le altre due coppie (quella belga e quella tedesca) e il fantasma del binomio gay torna minaccioso a farsi sentire, ora che ci stanno anche le montagne poi… . La strada che ci porta alla riserva (che l’UNESCO nel ‘93 ha definito: “molto bella”) è sensazionale e ci fa dire per l’ennesima volta “questa è proprio la cosa più bella di tutte però”.

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Siamo nel bel mezzo del nulla quando una salita troppo incazzata fa impennare il motorino e lo fa cadere all’indietro, rompendo fanalino posteriore, parafanghi, manubrio dell’accelerazione e alcuni pezzi di telaio. Dell’olio comincia a scendere sensuale verso valle mentre stiamo ancora traducendo Marco 3,27. Io raccolgo i pezzi, Giampaolo lo fa ripartire e decidiamo di volercene occupare dopo perché il posto è troppo bello per pensare ad uno Sky del ‘71 noleggiato con 2 Euro e mezzo.

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L’entrata della riserva sembra la porta di roccia di Jurassic Park e sicuramente Giampaolo non mi lascerà passare questa similitudine perché l’ho ripetuta troppe volte e non ha più niente di brillante da comunicare. Comunque sembra proprio l’entrata a Jurassic Park!

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Una salita in mezzo alla foresta ci porta fino in cima ad un monte verde, subito dopo la Salaria, e da li in poi il tutto ha dell’incredibile: la grotta di Phong Na in cima alla salita infinita è la più grande grotta del mondo. Non la più grande d’Italia, o la più grande d’America: la più grande del mondo e questo vuol dire che appena entrati da una piccola ferita tra le rocce ci ritroviamo dentro un mondo sotterraneo che non sembra avere un fine visibile.

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Dopo l’ormai consueta sequela di bestemmie da stupore iniziamo la discesa. Impieghiamo 40 minuti per arrivare al limite consentito di profondità: da quel punto in poi infatti la nostra guida cartacea ci dice che per scendere gli ulteriori 7 chilometri c’è bisogno dell’accompagno e di un elmetto e di una luce da esploratore. E di 100 dollari americani, che fanno sempre bene al socialismo. Noi scavalchiamo le transenne in preda al cagotto emotivo ma non riusciamo ad inoltrarci per più di qualche metro a causa della totale assenza di luce. La grotta è composta da calcaree per la maggior parte e questo vuol dire che li dentro l’acqua ha avuto migliaia di anni di tempo per modellare la roccia a suo piacimento, dando vita a sculture che proprio io non lo so. Ci scattiamo alcune foto in cerca della luce giusta ma è complicato rendere al meglio l’impatto visivo di questo luogo. Ci arrendiamo così ad alcuni scatti dozzinali da turista cinese a Fontana di Trevi: monetina, gelatino, sorrisino. Mentre risaliamo in superficie ci chiediamo più volte quale sia stata la reazione del primo uomo che nel 1993 ha scoperto questo tempio di calcaree. La nostra esplorazione del sito di Phong Na finisce con un percorso selvaggio che la cartina chiama Eco Trail, un appellativo hipster per definire quello che da bambino avrei pensato se mi avessero chiesto di disegnare l’avventura ideale.

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La caratteristica principale di questo tragitto è che si sviluppa su ponti e sentieri costruiti su delle pericolanti assi di bambù, attraverso una foresta fittissima e un paio di fiumi in piena.

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A quel punto decidiamo di fare una cosa che non faremo più in futuro, ovvero abbandonare il percorso prestabilito ed avventurarci in mezzo agli alberi.

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Si perché il Viet Nam Centrale era chiamato anche DMZ, Zona Demilitarizzata: in questa zona gli americani si sono divertiti a spargere mine come fossero Cornflakes e ancora oggi, ogni anno, muoiono 2000 persone a causa di ordigni inesplosi. L’eredità del colonialismo francese è stata l’ottima cultura culinaria che il Viet Nam ha assorbito dai loro conquistadores, quella americana invece è stata questa. Un motivo in più per credere nelle antiche scritture: “verrà un giorno in cui un popolo di ciccioni irresponsabili si troverà a decidere le sorti del mondo e quelle sorti faranno quasi tutte schifo”. Quando cerchiamo di immergerci nel fiume l’acqua è troppo fredda e l’ora troppo tarda. Torniamo verso il villaggio di Son Trach felici come non mai ma ci ricomponiamo subito perché è arrivato il momento di recitare la parte dei ragazzi che non hanno frantumato il motorino a noleggio. La prova attoriale è buona ma inculare un vietnamita è un’arte che impareremo del tutto solo giorni dopo, verso la fine della nostra permanenza. Riusciamo a spillare un sconto sul pagamento del danno, il cui totale ammonta a 4 euro. Noi rosichiamo come pazzi perché abbiamo perso completamente il valore effettivo del denaro: 4 euro sono un’infinità, che palle! La giornata finisce fantasticando sulla vita della nostra coinquilina obesa di Washington DC che ha preso il terzo dei quattro letti presenti nella nostra stanza, all’Easy Tiger. Lasceremo un mistero alle nostre spalle: una volta tornato dall’escursione trovo un stronzo di 35 cm nel bagno. Tiro lo scarico e penso che sia stato Giampaolo. Rincontro Giampaolo e lui mi dice di non aver sganciato nessuna bomba. Gli americani, invece, perdono il pelo ma evidentemente non perdono il vizio.

La sveglia alle 5 non è una tragedia. Arrivare fino a Da Nang su una corriera piena zeppa di vietnamiti invece è classificabile come piaga biblica. Ci mettiamo 10 ore e vedo salire e scendere più o meno tutta la quinta elementare del Viet Nam perché la corriera che abbiamo scelto si ferma davanti a tutte le cazzo di baracche dell’Indocina a raccattare scolaretti ma non solo: con noi ci sono operai, impiegati, anziani signori, anziane signore e mamme con figli addormentati. Verso la nona ora sembra di stare in Train De Vie. Quando arriviamo a Da Nang ci rode così tanto il culo che ci appiccichiamo praticamente con tutti compresi i mototaxi che vogliono portarci ad Hoi An, la nostra prossima meta. “Quanto? 2 dollari? 2 dollari è troppo, fottiti, vergognati”. Un sentimento di Napoli si sta progressivamente impossessando di noi e questo ci porta ad arrivare ad Hoi An in 3 su un cinquantino con tre zaini, di cui uno da trekking. Al mototassinaro gli diamo delle unghie, cinquanta centesimi e della terra secca. Stanchi, sporchi e avvelenati troviamo un hotel al centro della città

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e i due giorni successivi sono clamorosi. Hoi An è la città più bella del Viet Nam, con alle spalle una tradizione millenaria di artigianato.

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Qui tutti fanno tutto a mano, ma più di tutto fanno i vestiti e le scarpe. Ora sicuramente starete immaginando qualche bambino con la pancia gonfia che cuce un pallone della Nike ma qui non è proprio così e a dire la verità neanche in tutti gli altri posti del Viet Nam lo è. L’intera città è cosparsa di botteghe di sarti fenomenali che posso farti qualsiasi vestito, di qualsiasi tessuto in meno di una giornata. Stessa cosa con le scarpe. La fama di Hoi An e la qualità del suo artigianato sono rinomati in tutto il mondo così Giampaolo si fa fare un blazer senza collo con un doppio petto e un cappotto non troppo lungo con un cappuccio enorme che dallo stomaco parte per coprire ampiamente tutto il capo. Una specie di armani-ninja ma fatto a mano.

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Io mi sfogo chiedendo una camicia di simil seta con un pattern floreale che mi fa assomigliare a Boston George quando ancora spacciava erba in California. Galvanizzati ci dirigiamo verso il mercato dove facciamo degli acquisti incredibili, come quello di Giampaolo, uno zaino della North Face a 3 euro. Contrattiamo come pazzi scatenati, li mandiamo tutti rovinati e ce ne andiamo in spiaggia ma giusto per dargli un’occhiata perché il tempo non è dei migliori infatti a metà pomeriggio comincia a tirare giù Cristo e la Madonna. Muovendoci in bici siamo costretti a rintanarci dentro un ristorante che sta organizzando un buffet per il compleanno di qualcuno. La sera ad Hoi An è ancora più bella del giorno perché le strade si trasformano in quelle della perfetta città orientale, quella con le lampade di cartone ai margini delle strade, il ponte che è un dragone illuminato e il fiume che ospita una miriade di attività galleggianti. A cena mangiamo il Cao Lau, un piatto tipico fatto di insalata, erbe a caso, carne di manzo, altre erbe a caso e spezie, anch’esse a caso.

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Io e Giampaolo continuiamo a mantenere una policy abbastanza severa sulla scelta dei posti dove mangiare: devono fare schifo, devo essere all’aperto e devo far parte di case private. In questo modo riusciamo ad assaggiare la vera cucina scoreggiona del Viet Nam che devo dire non mi stanca mai. La notte del secondo giorno siamo ustionati come stronzi dopo aver passato una giornata al mare a fare un castello di sabbia, una cosa che per fortuna nessuno che conosco ha visto altrimenti non avrei proprio saputo come spiegarla.

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Dopo aver mangiato incontriamo un ragazzo sul ponte che distribuisce volantini di una serata in un locale non troppo lontano, open bar a 80 mila dong, 3 euro. Noi gli chiediamo gentilmente dell’oppio ma lui ci dice che qui l’MD è fantastico. Si, come no. Il locale è carino, ma non c’è l’ombra di un vietnamita. Sono tutti europei o nuovozelandesi e ci facciamo subito amicizia. L’alcol è pessimo, il rum e cola sa di tubature, il gin tonic di aspirina.

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Ad un certo punto la situazione degenera e parte a tutti la saudaji per cui giochiamo a biliardo, ruttiamo, urliamo fino a che arriva un tipo inglese con delle pupille grandi come bottoni. Io gli chiedo se sta in bomba lui mi dice di no, che ha solo preso del Diazepam. Ah vabbè ok, gli rispondo.

Ti basta poco per odiare Da Nang e a noi è bastato ancora meno: prima di imbarcarci per Ho Chi Minh decidiamo di fare tappa da uno scoreggione e mangiare qualcosa. Il lato positivo delle piccole città è che il disagio è sempre circoscritto ad alcuni luoghi piuttosto evidenti, quando sei in una grande città invece è molto più difficile non confondere il casareccio con la pura e semplice merda. Per questo motivo finiamo nella peggiore baracca che fa cose da mangiare a pochi chilometri dall’aeroporto. Ci accolgono un paio di signore unte che vedendoci sorridono e ci fanno accomodare. La scelta in questi posti è piuttosto ridotta, sempre meglio chiedere “quello che fai di più, nel miglior modo possibile” così non rischi di trovare nel piatto oggetti contundenti, pezzi di vetro, mosche ecc. Ci portano un piatto unico di riso, vegetali bolliti, mezzo uovo sodo a testa e alcuni pezzetti di frittata, il tutto accompagnato con una ciotola di brodo vegetale con minuscoli gamberetti all’interno.

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Dopo la prima manciata di riso entriamo in contatto con il sudiciume di quel luogo, oltrepassando il livello visivo e olfattivo e accedendo ad uno sensorialmente più completo. La frittata è del ‘48, le verdure sanno di tubatura (un sapore che torna spesso sulle tavole di questi scoreggioni) e mi basta un solo semplice sorso della zuppa per capire che se ne faccio un altro poi muoio. Le signore sorridono spesso e ci dicono delle cose in vietnamita, indicandoci i piatti, forse un modo per consigliarci il modo migliore per consumare il pasto o forse solo un avvertimento del tipo “mio marito Cheng è morto proprio così”. Io finisco quasi tutto mentre Giampaolo comincia ad informarsi sulla salmonellosi. Ci alziamo, paghiamo e prima di uscire io do un’occhiata furtiva al retro bottega e mannaggia a me a quando l’ho fatto: vedo un ambiente scuro e umido dove un paio di signore sono sedute per terra e lavano le stoviglie con dell’acqua fetida che scorre in un canale sul pavimento. Scappiamo facendoci forza e fino all’arrivo dell’aereo ad Ho Chi Minh sarà una costante ricerca della peggiore malattia che ti può prendere se ingerisci cibo guasto o acqua di fogna. Come ho già detto la salmonellosi è in pole position ma anche la paralisi da molluschi va alla grande. Appena fuori il nostro Gate, nell’aeroporto di Da Nang, mi prendono dei crampi e sia io che Giampaolo cominciamo a sentire una musica minacciosa di sottofondo. Per fortuna tutto si conclude con un’innocua scarica di black shit, di quelle elegantemente coperte da un colpo di tosse.

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Ho Chi Minh City è come Los Angeles, coperta 24 ore su 24 da uno spesso strato di foschia, smog e agenti atmosferici socialisti. Poco prima di atterrare ci spaventiamo: il colpo d’occhio è impressionante, la città si estende per più di 2000 km quadrati e gli abitanti, oggi, sono circa 10 milioni. Anche se vieni da una grande città, anche se sei abituato al traffico, anche se hai presente la tipica megalopoli occidentale, appena metti piede per le strade di Ho Chi Minh City ti sembra di stare dentro Independence Day, la scena quando tutti cominciano seriamente a cacarsi sotto. Avevamo appena assaggiato il caos vietnamita ad Ha Noi e ora ci rendiamo conto di non averlo neanche sfiorato. I sensi di marcia non esistono, i semafori non esistono, non esiste il buon senso, non esiste l’ossigeno. Tutti vanno in giro con una mascherina davanti al viso (come nella maggior parte del Viet Nam) e dal punto di visto architettonico la città non sembra affatto una città vietnamita. I grattacieli sono parecchi ma gli emblemi del socialismo (come la falce e il martello, le strutture grigie e imponenti, i messaggi del Partito su famiglia e patria) si alternano a quelli del capitalismo (Guess, Banana Republic, Sony e Canon). Dopo aver preso un taxi raggiungiamo il nostro hotel a piedi rischiando la vita un sacco di volte. Per fortuna la camera è decente, c’è doccia e WiFi, tutto il resto non conta e questo lo capisci solo se fai molti viaggi.

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I nostri giorni ad Ho Chi Minh City sono frenetici come se i suoi abitanti ci avessero attaccato una qualche sorta di ballo di San Vito. La sera in cui arriviamo ci rendiamo improvvisamente conto di non avere del tempo effettivo per gustare le attrattive della città, così non facciamo in tempo a poggiare il culo sul letto che siamo già in strada. La nostra sempre presente, che Dio la benedica, guida Lonely Planet ci consiglia un tragitto di 5 chilometri a piedi per raggiungere tutte le maggiori attrazioni del centro. Un palazzo con una falce e il martello, una statua con un samurai che una volta ha salvato tutti, il palazzo delle poste progettato da Eiffel, un altro paio di falci e martelli.

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Se posso dare un consiglio a chi si approccia per la prima volta a questa città è che quasi tutto quello che le guide vi dicono è sacrificabile, nel senso: io sono di Roma e vado al centro due volte l’anno perché di cocci e anfore e capitelli ne ho un po’ le palle piene. Chi va in Viet Nam, prima di vedere il Viet Nam non può far altro che pensare all’Hollywood Viet Nam. Puoi sforzarti di immaginarlo lontano da un paesaggio martoriato dalla guerra ma non ti sarà semplice. C’è solo un momento, anzi un paio d’ore per l’esattezza, in cui devi fare i conti con la guerra in Vietnam, ed è il momento in cui decidi di visitare il Museo Degli Orrori di Guerra, nel centro di Ho Chi Minh City. I tre piani e il cortile dell’edificio sono gli unici luoghi in cui il Viet Nam torna ad essere quello per cui tutto il mondo lo ricorda. Appena entrati si capisce subito la psicologia che vuole assumere il design della struttura: nel cortile sono esposti i carri armati, gli Apache, i caccia e le bombe con cui l’esercito americano decise di entrare in un paese di agricoltori e il messaggio è chiaro, “guardate come sono arrivati e guardate come se ne sono andati”.

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Fin dai primi minuti della visita la personalità d’acciaio di questo paese si sveglia dopo un umile letargo che decide volontariamente di mantenere in tutto quello che i loro abitanti fanno. Accanto ad ogni mezzo d’attacco c’è scritto cosa fa, quanta gente ammazza e in quanto tempo, e le cifre sono sbalorditive. Un’altra cosa che mi lascia secco è percepire per la prima volta la presenza reale di queste macchine, di queste bombe. Il colore verde militare, così utilizzato da chiunque, dovunque, e gli interni dei mezzi blindati puzzano di distruzione e di follia. Non ero mai stato vicino ad un carro armato o un Apache o un Chinook, e ora che l’ho fatto devo dire che è proprio una merda. Non sono affascinanti come nei film, sono enormi, ingombranti, arrugginiti e scomodi. Una signora all’entrata ci dice di cominciare la visita dal terzo piano e scendere poi fino a terra, ulteriore segnale di voler provocare un preciso effetto. Una serie di pugni nello stomaco ci spingono attraverso ogni sala, dove una macabra ironia (un cartello che recita l’inizio della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti)

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si alterna alla visione esplicita degli effetti raccapriccianti dell’Agente Arancio, un’arma chimica, un esfoliante per essere precisi, che gli americani usarono sul territorio vietnamita per oltre 15 anni.

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Rimane sempre ibrida la posizione che lo spettatore dovrebbe assumere di fronte a uno dei peggiori crimini contro l’umanità. Non mancano, infatti, le citazioni rammaricate dell’allora Segretario alla Difesa McNamara che, dopo aver ucciso 5 milioni di vietnamiti, permette all’America di smarcare l’appuntamento con la propria coscienza collettiva con l’ormai celebre “Si, avevamo torto, avevamo maledettamente torto. Ora dobbiamo spiegare perché alle generazioni future”

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uno scioglilingua fatalista che vuol dire tutto e non vuol dire niente perché a me la Guerra in Vietnam me l’ha spiegata Francis Ford Coppola e me l’ha spiegata male. Un solo termine ti viene in mente di fronte alla politica estera che gli Stati Uniti perpetrano da oltre 50 anni: nazisti, e non bisogna essere di parte per capirlo, bisogna solo essere umani. La guerra è atroce e questo te lo insegnano a scuola. Ma in questo sistema di interessi globali e radicati posso dire, io, di non averla mai fatta? No. E sta qui il punto ed è per questo che ogni occidentale che se ne va dal Museo degli Orrori porta con se una visione che, nonostante cercherà con tutto se stesso di seppellire sotto migliaia di meravigliose Costituzioni, sarà l’unica grande verità: sei stato un soldato anche se non hai sparato. Non entrerò nei particolari delle atrocità che abbiamo visto lì dentro perché quelle il cinema ce le ha fatte tutte vedere. Il senso autentico della realtà, invece, è un effetto che per fortuna non è possibile trasporre e che è concesso solo alle persone che cercano. La maestria con cui il popolo vietnamita respinse l’invasore americano è fatto si di bombe e di mezzi blindati, ma mantiene nella sua filosofia il romanticismo di chi crede in quello che non c’è. Ly Thuong Kiet, generale ed eroe nazionale durante la Dinastia Ly, riassume questo concetto in una frase:

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I francesi, gli americani e i cinesi che non gli hanno creduto ora sono tutti morti. Usciamo così dal Museo che sono appena le 10:30 del mattino e abbiamo tutto il tempo per conseguire quello che successivamente definiremmo come sport estremo: raggiungere il Delta del Mekong in motorino. Si, detto così non fa effetto ma se ora vi dico che tra andata e ritorno bisogna farsi 170 chilometri forse un po’ di effetto lo fa. Alla guida c’è sempre Giampaolo perché nel frattempo io non mi sono ficcato nel cervello il floppy del motorino come Neo fece in Matrix con quello del Jujitsu. Il viaggio mette a dura prova il mio concetto di resistenza fisica e siamo costretti a fermarci several times perché i dolori al culo e alla schiena sono insopportabili. Siamo costretti a usare le strade che non sono a pedaggio perché i motorini non possono fare le autostrade e questo vuol dire RALLY. Il manto stradale non è sempre una ficata ma come ci hanno insegnato chilometri e chilometri di selciato, le due ruote sono IL modo per vedere il Viet Nam. Attraversiamo diversi insediamenti, le briciole della provincia di Ho Chi Minh City, grande quanto quella di Città Del Messico. Prima di arrivare a destinazione, nel paese di My Tho, ci fermiamo a prendere del caffè che qui in Viet Nam è scuro e potente e ha un retrogusto indimenticabile di cioccolato e vaniglia. Lo servono con del ghiaccio che intanto abbiamo imparato ad usare senza farci troppi problemi sull’acqua con cui è fatto. Arrivati a My Tho (non senza problemi) incontriamo subito un uomo del posto, sdentato al punto giusto, che ci assicura una barca per pochi dong.

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Il tempo si mette male quando saliamo sull’imbarcazione di legno insieme a…insieme a Cheng (non ricordo il suo nome) e una volta in acqua realizziamo quanto sia grande il Mekong, un fiume-lago lungo quasi 5000 km e che nella classifica dei super fiumi occupa la dodicesima posizione.

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Il colore dell’acqua è dello stesso verde delle divise dei vietcong e come era stato per le acque di Tam Coc a Ninh Binh, la vegetazione non si limita a crescere ai lati dei corsi d’acqua ma bensì invade anche i fondali, emergendo incontrollabile dalla superficie fluviale.

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Entriamo in diversi canali e finiamo su una delle centinaia di isole del Delta del Mekong. Qui l’umidità sputata dalle foreste e dal fango è ai massimi livelli e dopo una breve camminata raggiungiamo una specie di fattoria che tiene in gabbia parecchi uccelli mai visti prima. Dopo aver stretto amicizia con un pitone junkie

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contrattiamo il prezzo del nostro pranzo: un pesce di fiume, brutto come la fame ma molto buono, a parte alcune reminiscenze della sempre presente acqua di fogna. E’ completamente fritto nell’olio di cocco e lo mangiamo avvolgendo la carne in fogli di carta di riso, insieme a della menta, cetrioli e altre erbe molto saporite.

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Le altre isole che visitiamo sono tutte a base di cocco, che è onnipresente in Viet Nam: dolci al cocco, sapone al cocco, caramelle al cocco, pasta di cocco, olio di cocco, statuine fatte con il cocco, cocco bello, cocco molto fresco. Tornati sulla terra ferma Giampaolo si esibisce nello sport che preferisce più di tutti: incularsi i vietnamiti. Li sgrida per non aver sfruttato a pieno il tempo a nostra disposizione, per averci fatto pagare troppo e per non aver detto la verità su alcuni dettagli. E’ un siparietto molto divertente che si ripete parecchie volte nelle due settimane qui ma che spesso e volentieri risulta come uno sbrocco totalmente infondato (e divertentissimo proprio per questo motivo). Grazie a questi suoi exploit riusciamo ad ottenere le migliori cose a prezzi stracciati e lasciarci alle spalle una nomea di clienti scorbutici che ci fa sentire come i Windsor. “Sei un bugiardo, mi vuoi fregare, mi vuoi fregare perché sono bianco, vergognati!” è la sua formula più utilizzata. Dopo aver lasciato 4 Euro a Cheng parte il toto-morte: il mio telefono è al 20% (dentro ci sono le utilissime mappe per tornare verso Ho Chi Minh City) e dei nuvoloni neri fanno capolino sopra le nostre teste. In questo periodo, in Viet Nam, fa buio alle 18 e questo vuol dire che ci facciamo 3 ore e mezza di motorino, al buio, con la pioggia, con poche Google Maps e senza la possibilità di andare in autostrada. Alle 20:30 siamo a casa pronti per il TG. Una menzione speciale va all’ottima prova attoriale esibita con un poliziotto che sulla statale per Ho Chi Minh City ci ferma puntandoci una torcia in faccia (mossa tra l’altro pericolosissima quando sei su un motorino). Ci vuole fottere 300 mila dong ma io mi ficco tutti i soldi nelle mutande e gli apro il portafoglio in faccia, ripetendo come un ritardato, “PASSAPURT! PASSAPURT! PASSAPURT!”. Lui dopo 6 minuti è talmente schifato che ci obbliga a sparire seduta stante. Roma Nord 1 – Viet Nam 0.

La pioggia non scalfisce mai il nostro spirito d’iniziativa soprattutto se sai cosa significa la pioggia per la terra che stai calpestando. Sembrerà esagerato ma spesso un paesaggio tropicale ha molto più da dire quando l’acqua lo sovrasta, sia dall’alto che dal basso, come un abbraccio amorevole anche se a volte spietato. Durante i nostri tre giorni di permanenza l’isola di Phu Quoc decide di averne tanta di acqua, oltre al suo mare, incazzato come non mai, assisteremo infatti a tremendi e repentini acquazzoni che vanno e vengono nel giro di una manciata di minuti. Questo all’inizio ci spaventa e ci abbatte ma poi riusciamo a trovarne subito i lati positivi, perché la stagione non è alta e Phu Quoc è una manciata di strade sterrate che si apprestano ad essere costruite nella speranza di vedere sempre più turismo. Di bianchi ne incontriamo una decina, sparsi qua e la, tutti vicini ai resort che ospita la strada principale che da Duong Dong, il capoluogo, attraversa parte della costa occidentale.

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Tolta quella zona l’isola è selvaggia e sconosciuta più di qualsiasi altra terra che io abbia visto prima. A Duong Dong (niente più che un incrocio tra tre strade) facciamo difficoltà a trovare qualcuno che ci affitti un motorino. Tiriamo fuori un po’ di veleno e nel giro di un paio d’ore abbiamo un mezzo e un luogo dove stare, una specie di raduno bungalow in cui le costruzioni in legno sono tutte aperte e immerse nella vegetazione.

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La nostra, a pochi metri dal mare, è spoglia ed essenziale: il letto è coperto da una grande zanzariera azzurra che ci avverte subito dei mostri notturni che potrebbero minacciare la nostra incolumità.

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Una volta sistemati decidiamo di testare di che stoffa sono fatti i scoreggioni del luogo e con grande stupore rimaniamo basiti. Finiamo in una bottega all’aperto dove servono BBQ di pesce e frutti di mare, quella che poi scopriremo essere la dieta fondamentale degli abitanti dell’isola. Ne mangiamo parecchia di quella roba perché tutti i piatti costano 30 mila dong, poco più di un euro, e le birre stanno a 10 mila dong, lascio a voi il calcolo.

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E’ li che conosciamo Cuong, un ventenne di bell’aspetto che ci dice di lavorare nel resort li di fronte, come receptionist. Prendiamo subito la palla al balzo e gli chiediamo dove possiamo comprare del pepe bianco (uno dei generi più pregiati viene proprio da questa piccola isola) e lui chiama in causa una piccola fattoria a sud di Duong Dong che ha ottimi prezzi e una piantagione tutta per se. Ci diamo così appuntamento a domani sera, quando Cuong sarà libero del lavoro e disponibile a farci da guida. Prima di andare a letto facciamo un salto al rinomatissimo Night Market, nel centro della città e sui suoi banchi vediamo esposti una moltitudine impressionante di animali marini tra cui aragoste lunghe quanto una gamba e dei piccoli squali che decidiamo di voler assaggiare quando sarà domani.

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Ci sveglia un nubifragio e riusciamo a sconfiggere il malumore solo andando a comprare 2 buste piene di frutta sconosciuta all’uomo occidentale, fatta eccezione per quelli che hanno letto One Piece. Insieme alla frutta compriamo dei sfincioni dolci che non sono altro che banane ricoperte di riso fritto dentro l’olio di cocco.

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Ad un certo punto non ci inculiamo più la pioggia e decidiamo di farci il bagno comunque, che in realtà è ancora meglio.

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Percorriamo un bel pezzo di costa occidentale a piedi e sembra di stare in un film di Shyamalan: tutti i resort e i villaggi sembrano come abbandonati sotto la furia incessante della stagione delle piogge che li a Phu Quoc è una dimostrazione di forza che la natura ripete ogni anno. Quello che fanno i vietnamiti è semplicemente sottostare a questa evidente superiorità fisica e aspettare che termini il suo corso per poi ricostruire tutto. Noi siamo in quel momento in cui gli isolani ancora non hanno deciso di darsi da fare e le sdraio, gli alberi, le piccole casette sulla spiaggia sembrano finite li per caso, portate da chissà quale gigante cieco. Troviamo alcuni cocchi per terra e decidiamo di aprirli come degli stronzi. Il risultato è piuttosto scadente perché il cocco è pronto quando tende ad un colore giallo, mentre quelli che troviamo sono marrone scuro e verde pastello. Dopo una giornata passata in acqua ci ritroviamo al Night Market a mangiare svariate conchiglie di mare e un pesce piuttosto grande e molto buono.

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La notizia che Cuong domani avrà il giorno libero ci fa ben sperare e nel momento in cui lo vediamo, la mattina dopo, con suo fratello Tuan, prende a tutti la fissa della vita meno che al nostro motorino che si spegne e non si riaccende. Mentre Giampaolo e Tuan passano in città per cambiarlo io e Cuong scambiamo due chiacchiere: mi spiega che quasi tutte le piante che ci circondano in quel momento sono commestibili, compresi i fiori di banana che sono molto buoni nell’insalata. Mi racconta della scuola in Viet Nam, della sua passione per Rihanna, per la breakdance e per i BBQ sulla spiaggia. Quando il resto della banda si riunisce, noi siamo pronti per partire verso Sud.

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Basta lasciarsi alle spalle la civilizzazione e Phu Quoc torna ad essere un’isola sperduta nel Golfo della Thailandia. Ci fermiamo nella fattoria del pepe bianco e per poche migliaia di Dong ci portiamo a casa un chilo di prodotto.

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Provoco di nuovo le mie emorroidi percorrendo le dissestatissime strade che portano a Sud: è un viaggio di un’ora e mezza nell’entro terra dell’isola, un vero e proprio rally con il mezzo sbagliato. Ci fermiamo in una bottega sulla strada a comprare dei k-way perché intanto sta tirando giù la sempre piaciuta Madonna e Gesù Cristo. Dopo 4 minuti esce fuori un sole massacrante che ci ustiona le braccia: non c’è verso di salvarsi da quei cambiamenti climatici così repentini e tutto ci dice che finiremo come i tedeschi a Via dei Fori Imperiali, ustionati e coi sandali in plastica. Una piccola pausa nei campi di concentramento franco-americani di Phu Quoc, la Coconut Prison, ci ricorda quanto a l’uomo non basti neanche quel paradiso per redimersi dal suo sciagurato bisogno di morte e distruzione. Quand’ero piccolo vidi Dachau, a nord-est di Monaco, il primo campo di concentramento nazista e pensavo che quel tipo passatempo fosse una prerogativa prebellica nella storia del mondo civilizzato. E mi sbagliavo.

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Proseguire per arrivare nel villaggio di Cuong è un’esperienza e decidiamo di fermarci da un venditore di frutta e comprarne un po’ per la madre di Cuong, quando vedrà arrivare a casa dei mostri ariani. Proseguiamo verso Sud-Est e quando stiamo entrando nella fitta vegetazione un ragazzo con il mitra ci ferma. Cuong si assenta per una decina di minuti e torna con un lascia passare molto speciale: quella zona, ci racconta, è chiusa agli stranieri a causa della sua funzione militare e nella baia in cui ci fermeremo, una zona di Kem Beach, saremo i primi occidentali ad averci messo piede (un bambino ci farà addirittura una foto con il suo iPhone falso). Lungo la foresta incontriamo dei soldati vietnamiti che si riposano all’ombra di qualche banano dopo aver trasportato grandi quantità di materiale. La reazione che abbiamo nel fermarci sulla spiaggia di Bai Khem è piuttosto ridicola, ma non mi trattengo e bestemmio a cuore aperto, mi spoglio e mi butto in mare che, a differenza di quello della costa occidentale, è una tavola rotta solo da alcune rudimentali imbarcazioni di pesca e che all’orizzonte si mischia con il cielo dello stesso colore.

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La sabbia è bianca, non gialla, gialla tendente al bianco, perla, vaniglia, no, è bianca. Restiamo in contemplazione per quasi mezz’ora nelle bassissime acque della baia e mi viene quasi da piangere perché non c’è luogo più bello che io riesca a ricordare. Se infili le mani nella sabbia le tiri fuori piene di paguri e stelle marine e io trovo anche un nove di cuori, pensa te.

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Quando ci riprendiamo Cuong e Tuan hanno apparecchiato un tavolino insieme ad altri loro amici e l’hanno imbandito con un’insalata di pesce, erbette varie e fogli di riso.

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Da lì in poi è un susseguirsi incessante di cose bellissime e buonissime, compreso il vino di banana che trangugiamo a turno.

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In questa foto io faccio una foto ad un tipo che fa una foto ad una mamma che fotografa sua figlia. 

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La compagnia si estende e restiamo li fino a che non fa buio. Lasciamo la baia ma una coppia di cani continua a giocare sulla spiaggia: dicono che non sono di nessuno, che ogni mattina dal villaggio scendono al mare, per giocare e poi tornano in dietro. Una vita da cani insomma. Casa di Cuong e Tuan è immersa in mezzo ad altre migliaia di baracche che costituiscono il loro villaggio, il cui nome non è neanche segnato sulla cartina. La casa è completamente aperta e in ordine attraversiamo il salotto, le stanze da letto, la cucina e i sanitari che non sono nient’altro che dei cessi alla turca con dei grandi barili di acqua accanto, utili per scaricare. La famiglia di Cuong è composta da lui, Tuan, sua madre (una donna molto bella e particolarmente curata) e il padre, un tipo non troppo espansivo ma comunque molto felice di vederci. Ci preparano un’infinità di roba e l’apparecchiano per terra come è usanza nelle abitazione private vietnamite.

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Mangiamo granchi grandi quanto la mia mano, conchiglie, manghi, piccoli polipi secchi e altro pesce di cui non so il nome. Forse l’unico grande rimpianto che ci portiamo a casa è quello di non aver imparato praticamente niente della lingua che abbiamo ascoltato parlare per 15 giorni. Non avendo alcun ceppo linguistico conosciuto a cui appigliarsi ci sarebbero serviti almeno 6 mesi per riuscire a capire almeno una frase di tutte quelle che ci siamo sentiti dire. I nomi delle cose, del cibo, di alcuni luoghi, di alcune persone rimangono li, come seppelliti sotto un velo di inaccessibilità. Sorseggiamo un distillato locale molto forte e ascoltiamo gli sbrocchi ubriachi di un amico di Cuong che probabilmente si chiede per quale motivo debba condividere la cena con due bianchi. Finisce la serata piegato oltre la ringhiera del patio, vomitando e scoreggiando come se avesse l’apocalisse dentro. Prima di andarcene da quel luogo così lontano, ma ora così vicino, rimaniamo seduti fuori casa di Cuong, guardando le persone che incredule osservano quello strano quadretto di uomini e donne che hanno solo il mondo in comune. Non basta la strada del ritorno, impervia e ritardata da lunghe soste a causa del mal funzionamento del motorino di Cuong che lui stesso chiama “my old friend”, per farci riprendere da quella giornata così speciale. E non basterà neanche l’estenuante ritorno a Roma, passando per i ritardi della China Southern, la visita del quartiere-cantiere di Dien Xa tra l’aeroporto di Ha Noi e la città, due giorni di permanenza horror in un Business Hotel della periferia nord-est di Pechino consumando solo acqua bollita per depurarla da qualsiasi infetta origine, per cancellare l’incisione che questo viaggio ha prodotto e produrrà sulle nostre vita. E’ tempo di tornare indietro, come fanno le onde dopo essersi infrante.

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Il viaggio non è costato più di 1400 Euro, compresi i voli e tutti gli spostamenti. Abbiamo vissuto a risparmio è vero ma ci siamo anche concessi alcuni lussi, come quelli dei vestiti ad Hoi An. Per vivere due settimane in Vietnam, spostandoti, ti bastano 300 Euro. Secondo i nostri calcoli, te ne bastano 100 se decidi di non muoverti troppo. 

CONCLUSIONI

Niente mi fa crescere più dei viaggi, da quelli fisici che richiedono spirito d’adattamento a quelli mentali che invece contemplano la capacità di saper tradurre le proprie emozioni. Il patriota Ho Chi Minh, dall’alto del suo sacrificio, definiva così il popolo vietnamita: “miserabile materialmente, ma moralmente incrollabile”, ed è proprio così che ho deciso di chiamare questi giorni passati nella giungla, tra le gobbe del drago di Ha Long e gli odori e i sapori della sconosciuta baia di Khem, sull’isola di Phu Quoc. Spero che il ricordo di questi giorni non mi abbandoni tanto velocemente, che la mia permanenza in Viet Nam non sia mai scambiata come una vacanza dalla vita quando la vita mi sembrerà solo una lunga vacanza da quello che invece realmente conta. La pazienza con cui quei luoghi hanno atteso la nostra venuta ha dell’incredibile e non capisco e non capirò mai come alcuni uomini non prendano questo come una priorità assoluta. Io ero uno di quegli uomini e forse lo sono ancora, ma prendersi il beneficio del dubbio è già un passo verso la redenzione. Di quello che avevo sentito dire del Viet Nam non ho trovato neanche l’ombra e fino a che resteremo moralmente incrollabili, di questa parte di mondo vedremo solo la parte migliore. Confrontarci con le grandi distanze ci ricolloca in uno scenario in cui siamo piccoli e leggeri, in cerca di un posto a sedere tra le persone che hanno contribuito ad aumentare la propria conoscenza, non quella sterile e accademica, ma quella la cui unica espressione gode di mille interpretazioni. Che senso ha avuto andare fin laggiù? Mi basta sapere che lo volevo come se il mio desiderio fosse l’unico padrone e il mio compagno di viaggio l’unico testimone. Arriverà il giorno in cui non ci sarà posto al mondo che non potremmo chiamare casa. Quel giorno per me le nazioni cadranno e con loro cadranno i confini, le bandiere, le lingue e le religioni. Quel giorno mi siederò sotto un bel cielo, sorridendo per la meritata vittoria.

 

 

MISERABILE MATERIALMENTE MA MORALMENTE INCROLLABILE. (PRIMA PARTE)

Questo è il diario che ho tenuto nei giorni che sono stato in Viet Nam, insieme al mio amico Giampaolo Speziale. Vi tranquillizzo subito: è andato tutto bene.

Guangzhou in Cina deve il suo nome, “città delle capre”, ad un’antica leggenda che narra di un lungo periodo di siccità interrotto solo dalla venuta profetica di un gruppo di capre salvatrici. La voglia di visitare la città è tanta ma per questa volta l’unica Guangzhou che vedremo sarà quella che le pareti vetrate del suo aeroporto ci permetteranno di vedere.

Siamo nel bel mezzo del nostro primo e unico scalo cinese e aspettiamo fiacchi che arrivino le 16, quando l’ennesimo aereo ci porterà finalmente a destinazione, Ha Noi, Viet Nam del Nord. La Air France ci ha portato fino a Parigi, la formidabile China Southern fino a Guangzhou, terza città della Cina per densità e superficie. Lo scalo francese non è degno di alcuna nota se non per quanto riguarda la presentazione ufficiale della mia personale teoria sui francesi: gli under 25 sono froci, gli over 60 Gerard Depardieu e i negri Quasi Amici di tutti. Parigi e la Francia, per me, finiscono qui. Ed è per questo che torniamo in Cina. Sopravvivere in maniere dignitosa in aeroporto non è affare semplice e a testimoniarlo c’è la serie di posizioni improbabili che vengono assunte per cercare di dormire un po’.

Potrei scrivere dell’ottima zuppa che abbiamo mangiato, dei versi animali che escono dalla bocca dei cinesi nei bagni pubblici, del sole sbiadito che abbiamo aspettato splendere invano oppure potrei scrivere del perché gli uomini oggi sentono ancora il bisogno di fare lunghi viaggi. Cercherò una risposta migliore di quella che sento già di avere e farò di tutto per scansare l’ovvietà. Io sono Andrea, lui è Giampaolo e tutto il resto l’abbiamo lasciato a casa.

La corriera sfreccia a velocità considerevole lungo la strada che in teoria dovrebbe portarci a Ninh Binh, città industriale nei pressi di Tam Coc, che in vietnamita significa “tre grotte” perché, guarda un po’, ci stanno 3 grotte calcaree lungo un fiume percorribile solamente su barchette in legno. Ho appena scritto un periodo molto lungo così prendo un bel respiro e vi spiego perché siamo completamente in hangover e con la lingua che è una pail di Decathlon. Non faccio difficoltà a riavvolgere il disco, quando si vedono le cose che abbiamo visto in questi primi due giorni il procedimento risulta piuttosto semplice da eseguire. Quando l’aereo per Noi Bai è atterrato e il nostro zaino-bagaglio è comparso lungo il rullo bagages siamo esplosi in un mini grido di gioia, poi ci siamo dati il cinque fingendo di essere quarterback.

Fuori dall’aeroporto abbiamo aspettato tempo infinito prima che il bus si riempisse di passeggeri, tra cui una coppia di cinesi confusi che cercano di spiegarci come abbiano avuto terribili problemi nel prenotare le cose dalla Cina. Dopo aver annuito ed aver immaginato come sarebbe la mia vita con un governo che mi chiude Facebook, ci intratteniamo con un ragazzo del posto, lo sdentatissimo Toni che con fare leggermente ubriaco ci assicura grandi cose ad Ha Noi. Lo perderemo di vista quasi un’ora dopo, insieme a tutte le sue bellissime promesse. Prime sensazioni: Ha Noi è un formicaio sauna dove sembrano tutti andare di fretta e sembrano tutti farlo su gli onniscienti motorini che, come presi da una qualche furia anarchica, non rispettano niente e nessuno: vogliono passare e passeranno, e per farlo in maniera più fastidiosa accompagneranno il loro pantareismo con una perentoria sgrullata di clacson. Mi passi vicino? Clacson. Mi stai davanti? Clacson. Mi guardi ammiccando? Doppio clacson. Il suono prodotto dai mezzi di locomozione è assordante ma c’è da dire che ci si fa subito l’abitudine, come per le bestemmie allo stadio. La prima analità arriva quando, dopo una lunghissima camminata, arriviamo di fronte all’hotel che avevamo in precedenza prenotato.

L’hotel in questione non esiste, o meglio, una ragazza molto simpatica e sorridente ci spiega che la serranda al numero 16 di Thanh Ha si è chiusa una settimana fa e non è stata più sollevata. Noi facciamo spallucce e lei ci invita a joinare il suo di hotel, un certo Aurora 2. Il posto sembra umano quindi prenotiamo per due notti e…c’è puzza di WiFi: tutti in stanza a mondializzare! Quando ci riprendiamo dall’ormai estinta astinenza ci guardiamo intorno. La stanza è una matrimoniale molto piccola che emana un leggero fetore di muffa ma niente che mi fa gridare allo scandalo. Tutta la città sa di autopsia a parte qualche sporadica folata di cucinato. A proposito di cucina: il cibo è la cosa che segretamente aspettiamo più di qualsiasi altra cosa. Costa poco, è tanto ed è pressoché ovunque, ad ogni angolo di Hoan Kiem, il quartiere vecchio di Ha Noi dove abbiamo scelto di vivere questi due giorni.

Così ci ritroviamo in una specie di bottega che cucina all’aria aperta e che serve ciotole di spaghetti su mini-tavoli, circondati da mini-sedie. Per terra ad Hanoi c’è il mondo, da probabili resti umani a rimasugli di mangiato, vomitato e poi cagato.

Un particolare questo che va sicuramente d’accordo con la selva di insegne, colori, grida, CLACSON, motorini e biciclette che fanno da cornice costante a tutti i nostri spostamenti. In due spediamo poco più di 150.000 Dong (7 Euro) e dopo esserci letteralmente rotti il culo di pietanze tipiche, cominciamo a bere birrette girovagando, annusando e ridendo come i veri froci dei film (è un attimo e siamo dentro Brokeback Mountain ed è per questo che scelgo di prendere l’abitudine di fare commenti sessisti su qualsiasi mammifero femminile che mi passa davanti, vecchie comprese). Per strada invece c’è l’inferno e più o meno cinque milioni di epilettici riversati per Hoan Kiem. La nostra giornata finisce intorno alla mezzanotte, esausti ma con una voglia incredibile di svegliarsi e tornare per strada, in mezzo a quel caos calmo che ci ha già stregato.

Svegliarsi ad Ha Noi è un’esperienza fantastica. Il concerto di clacson comincia molto presto. Alle 7:45 siamo pronti per unirci alla corriera della Alova Cruises, un’agenzia che organizza tour in barca ad Ha Long Bay. Sorridiamo alla ragazza simpatica e sorridente della reception e conosciamo un certo Tom, un ragazzo vietnamita che è uno spasso il cui vero nome non è mai Tom ma un verso gutturale come quando spingi sul cesso. E’ più o meno in quel momento che capiamo per quale cazzo di motivo ieri sera ad Ha Noi sembravano tutti aver mangiato pane e cocaina: il 2 Settembre del 1945 il Viet Nam si rese indipendente dal resto dei franco-cino-giappo-coreo-thai-massage che invece li avevano tenuti sotto il loro dominio fino a quel giorno. Quella a cui avevamo assistito era la Festa per l’Indipendenza del Viet Nam, ad opera di grandi uomini come il patriota Ho Chi Minh (di uomini come lui se ne sente ancora la mancanza). Dopo aver chiarito questo particolare ci mettiamo in viaggio: Tom ci spiega un sacco di cose in inglese ma io ne capisco veramente poche. Lui si giustifica dicendo che ha il raffreddore ma a me non m’incula e mi accorgo che una serie di vocali e consonanti non riesce proprio a pronunciarle. Per fortuna Giampaolo mi fa da interprete prima di cadere svenuto con la testa riversa all’indietro, vittima di un violento colpo di sonno. Tra tutte le cose che impariamo ce ne sono alcune molto interessanti, come la storia dei soprannomi che i genitori danno ai propri figli piccoli per tenere lontani gli spiriti maligni: “cane”, “ragno”, “capra” ecc. Ora non chiedetemi come uno spirito maligno sia spinto a non divorare l’anima di un piccolo vietnamita in base a come viene chiamato dai genitori perché questo è uno di quei dubbi che probabilmente moriranno con me, nel 2149. Un altro aspetto del Viet Nam che ha dell’assurdo è la costruzione della case. Le case in questo paese sono larghe poco più di un paio di metri e lunghe almeno 20. Ognuna di esse ha 3 piani, il piano terra è riservato alla bottega dove la famiglia esercita la professione (meccanico, ristorante, sanitari o un semplice negozio che vendete cose piuttosto utili) e dove vivono anche gli anziani della famiglia, il secondo è riservato ai figli grandi degli anziani e l’ultimo nonché terzo piano è per i bambini che stanno in fissa a farsi tre piani a piedi tutti i giorni. Tom ci spiega inoltre che un metro quadrato in Viet Nam costa quasi 50.000 dollari e se questo fatto lo si addiziona alla tendenza genetica che i vietnamiti hanno a riprodursi e svilupparsi come funghi hai il seguente risultato: case fine fine, lunghe lunghe, che sembrano come libri in piedi con il dorso (?) curato e bene in vista e tutto il resto coperto da cemento armato. Tom non è contento di questo e si incazza un po’ quando denuncia il suo bisogno di finestre. Ha ragione, penso. Tutti nel bus gli danno ragione, compresi alcuni malesiani (di cui uno palesemente omosessuale). Mi accorgo di una cosa curiosa: tutti gli altri popoli dell’estremo oriente vengono trattati come pezze da piedi dai vietnamiti che più di tutti odiano a morte i cinesi, forse, anzi, togliete pure il forse, perché quelle vietnamite sono le genti più maltrattate di questa parte di mondo, come gli ebrei. Si, possiamo dire che i vietnamiti sono gli ebrei dell’estremo oriente e questo è un derivato della mia logica che non ha nessuna certezza storica a cui appigliarsi ma il ragionamento fila, quindi lo prenderete tutti per vero. L’UNESCO, quell’organizzazione che dice “questo è molto bello”, “questo è carino”, “questo invece puoi rimettertelo nel culo”, ha dichiarato Ha Long Bay patrimonio dell’umanità e quando siamo finalmente sulla banchina del porto, pronti per salire a bordo di un barcone di legno, cominciamo a capire il perché di tanto sensazionalismo.

Per tutta l’immensa superficie della baia sono stati distribuiti come chicchi di riso, enormi isolotti in pietra ricoperti di vegetazione.

L’impatto visivo è micidiale ed io e Giampaolo passiamo presto in un stato di sublimazione mistica per cui tutto è “Porcoddio!”. A quel punto scatta la paranoia delle foto e ci prende come ai giapponesi a Roma.

Dopo un’ora passata a navigare nella baia la barca si ferma su una piattaforma ambulante in cui sono parcheggiati alcuni kayak. Appena li vediamo facciamo “dammi dammi dammi dammi dammi dammi” con le mani in avanti e dopo pochi minuti diamo pesanti pagaiate immersi nelle grotte della baia. Nessuno potrebbe scrivere che effetto fa essere lì e io non proverò a farlo.

Quando tutto è finito Giampaolo stacca alcune foglie da una pianta tropicale, le stesse foglie che probabilmente ci assicureranno alcuni anni di prigionia nelle celle umide di Saigon. Sulla strada per il ritorno al porto facciamo la conoscenza di un simpatico pederasta di Dubai, venuto in solitaria in Viet Nam. Mi ossessiona chiedendomi che squadra allena Benitez, io gli dico che Giampaolo è della Lazio come per dire “prenditela con lui” ma il pederasta non capisce l’antifona e dopo un po’ si annoia e si acquieta. Tornando a casa si discute sul senso del socialismo e sulla reale applicazione che il governo vietnamita si impegna a perseguire oggi come oggi. Dopo varie elucubrazioni sia io che Giampaolo condividiamo il fatto che il socialismo odierno, come il comunismo, è ormai un ibrido State Of Mind che vive nel ricordo di se stesso, un nervo accavallato da ormai troppo tempo. C’è stato un tempo in cui queste cose hanno funzionato al di fuori della dimensione teorica? La mia idea è che si, una volta hanno funzionato, ma solo per pochissimo tempo, tipo due mesi, poi tutto è andato a troie. Ogni 25 metri c’è una bandiera con la falce e il martello e a me fa piacere vedere la falce e il martello ma ormai credo che la felicità vada cercata altrove. La sera ridiventiamo stupidi all’improvviso e non rispettiamo i nostri precedenti “mi raccomando stasera super ninna che domani 7:15 sveglia male” e dopo aver mangiato in una bottega lurida, ma così lurida che a confronto la macro di un pezzo di merda sembra un frullato di Amuchina,

incontriamo per caso una ragazza cicciabbomba proveniente da Perth, Australia, che ci chiede, anzi ci prega, di concederle del party. Noi non abbiamo fatto ancora la doccia e non ci pare il caso di…no, niente, ha della vodka in stanza, la prende e dice di andare in un locale a fare “I gotta feeling”. Per strada ci racconta che il suo amico l’ha lasciata da sola perché gli è venuto il cagarione, che in australiano si dice “cagarione”, dopo aver bevuto dell’acqua corrente. In ospedale gli hanno dato della penicillina che per fortuna lui ha rifiutato. Finiamo così in un locale stretto e lungo (ma va?) dove un ragazzo del posto pompa una selection che mi fa cantare a squarcia gola in sequenza: i Five, gli Swedish House Maphia, Shakira e tanti altri ancora. Insomma un mito vero e dopo aver bevuto la mia Grey Goose calda senza ghiaccio lo saluto con la mano. La ragazza cicciabbomba è leggermente alticcia e fa scattare dei selfie compulsivi su Instagram fino a che ammette di non averne abbastanza. Incontriamo dei ragazzi di Raganfurt o come cazzo di chiama la città tedesca dove mi hanno detto di vivere e insieme a loro arriviamo a dire che dobbiamo prendere dei motorini e andare a fare dell’altro party. In men che non si dica tre giovani vietcong si presentano come se ci stessero spiando da giorni e ci fanno salire in sella ai loro viet-motorini. Piove pioviccica, ma nessuno se ne cura: giriamo per parecchi chilometri e farsi Ha Noi sul motorino è il senso ultimo di una città come quella. Incredibile, voto 9 e mezzo.

La serata si conclude in bellezza dentro l’ennesimo locale, abitato però da degli strani esemplari di ragazzi della Nuova Zelanda, dei bistecconi alti 1 e 90 con una faccia da contadini deficienti che ci dicono di vivere lì e campare grazie all’organizzazione di sport estremi per turisti. Appena vedono la cicciabbomba di Perth ai tipi viene la bava alla bocca e l’istinto riproduttivo dei surfisti illetterati li fa andare su di giri: in 4 minuti si caricano cicciabbomba sul motorino e se la vanno ad inculare over the rainbow. Non rivedremo mai più la ragazza di Perth e probabilmente neanche sua madre lo farà. Io e Giampaolo beviamo le ultimi 16 birre e scambiamo due parole con i ragazzi di Raganfurt: facciamo due conti e capiamo di aver fatto serata senza aver cacciato un Dong. La scomparsa cicciabbomba ci ha offerto tutto, così, prima di essere sacrificata sull’altare di qualche dio maori. Torniamo a casa sugli stessi motorini che ci hanno portato all’andata e una volta in hotel scazzariamo come Franchi e Ingrassia. La sera leoni, la mattina coglioni. Chi è che lo diceva?

Svegliarsi fa schifo. Non importa dove sei, se a Dubai insieme al pederasta o a Guantanamo con i cugini di Bin Laden. Facciamo una difficoltà enorme per ergerci dai nostri umidi giacigli e quando riesco ad alzarmi mi lavo un’ascella dopodiché rimando l’acqua a giorni migliori. Come un down faccio lo zaino e a carponi raggiungiamo l’area colazione dove sbraniamo diversi quintali di spaghetti. Quando siamo sulla corriera che dovrà portarci a Ninh Binh (7/8 Euro a persona, prenotata la sera prima in un’agenzia di Ha Noi) riacquistiamo progressivamente la capacità di opporre i pollici. Un ragazzo di nome Phu (si legge Fu, come Hey fu siccome immobile) ci dice che ci fermeremo in un sito a pochi chilometri da Ninh Binh il cui nome, Bien Lai Thu Phi Tham Quan non risparmia chi prova a pronunciarlo. Il sito in realtà sorge nei pressi delle prime evidenti formazioni rocciose che caratterizzeranno tutta la regione intorno a Ninh Binh, molto simili agli isolotti della baia di Ha Long ma decisamente più scuri e imponenti. Con mia grande felicità cominciamo a intravedere i templi e le pagode per cui l’Oriente è famoso. Quelle che troviamo qui risalgono ai resti dell’antica capitale del Viet Nam durante la Dinastia Dinh intorno al 900 d.C., mi dice Giampaolo che ha un feeling speciale con la guida della Lonely Planet.

All’interno ci sono statue e altari dedicati agli imperatori della dinastia. Fuori dal sito c’è una piazza enorme dove al centro si trova il trono dell’imperatore X, quello con 5000 figli, 300 mogli e 1200 altre cose da imperatore.

Faccio la conoscenza di un vecchio contadino con il “nòn là”, il tipico cappello a punta dei vietnamiti, che si immerge dentro una palude per ricoprire la sua vacca con del fango argilloso che molto probabilmente terrà lontani gli insetti dalla bestia sacra.

La corriera ci porta al centro di Ninh Binh in poco meno di un’ora e da li in poi siamo liberi da guide turistiche e vecchie rincoglionite australiane che cercano invano di farsi pompare dai giovani del posto (durante il viaggio io e Giampaolo ci divertiamo a doppiare le suddette vecchie mentre raccontano la loro esperienza con il tipico ragazzo vietnamita, esile ma vigoroso, il tutto con accento calabro. Lo facciamo per almeno 30 minuti buoni). Ninh Binh è una città industriale dicono i manuali ma di industriale non ci vedo un bel cazzo, così entriamo nel primo hotel che troviamo e ci va bene: una doppia con ventilatore 12 euro a notte.

Ci sistemiamo e ci prepariamo per quello che aspettiamo da quando, mesi e mesi fa, abbiamo preso i biglietti aerei: Tam Coc – Bich Dong, un enorme percorso che attraverso il fiume Ngo Dong porta la nostra canoa, guidata con i piedi (non è un modo di dire) da una ragazza molto carina, fino ad attraversare ben tre caverne scavate dall’acqua del fiume dentro le enormi rocce verdi di questa regione. Affittiamo finalmente un motorino e ci dirigiamo in solitaria sulle sponde del fiume.

Il viaggio in canoa attraverso le gole e le caverne di Tam Coc è senza dubbio la cosa più bella che io abbia mai fatto nella mia vita e ora che è finito sono più che convinto che vivere e morire senza aver chiuso gli occhi e ascoltato quel maestoso polmone respirarti addosso è la punizione più atroce che un uomo può fare a se stesso.

E’ inevitabile guardarti dentro quando navighi su quelle acque , come se la Terra, che li è viva e presente e irruenta, ti chiamasse al suo cospetto, dopo tanti anni di lontananza. Ammiriamo per ore quello che ci circonda senza proferire parola alcuna, nell’estasi del far parte di un sistema che ha un inizio ed una fine, che non inganna, che non mente e che ti permette di relazionarti a lei nonostante sia il capo assoluto di tutte le cose dell’universo.

Tutto tace e tutto parla o siamo solo noi a parlare con noi stessi. Penso agli americani che 50 anni fa hanno buttato delle bombe qui. Mi commuovo nel ribadire a me stesso come non sarò mai parte integrante inconsapevole di una cultura che mi uccide, a costo di essere triste, a costo di essere povero. E’ imperdonabile quello che si è fatto a questo paese nel nome di una presunta superiorità morale che prende spunto da principi che sono bambini sperduti al supermercato, ben lontani dall’essere ritrovati dalla propria madre. E si, penso anche a Dio, perché è inutile ma ci penso sempre e lo trovo sempre più spesso sotto forme diverse, non come una creatura a cui costruire altari ma piuttosto come un tacito assenso che parla di noi e che silenzioso ci indica la giusta via per non morire lontano dalla vita. La dignità intellettuale che crediamo di stare maturando è un bocca che va sfamata, forse è anche questo il senso ultimo dei grandi viaggi.

Torniamo verso Ninh Binh sempre in motorino, in pace, ma prima di farlo ci fermiamo in un’altro luogo dove pagode buddiste sono immerse nella giungla rimessa a nuovo dalla passata stagione delle piogge.

Sogno la giungla da quando mio padre mi faceva leggere Salgari e le Tigri di Mompracem. Ora siamo tutti qui.

 

Fine prima parte. (Ho dovuto dividere in due il diario perché Tumblr è uno strumento per poveri ritardati)